La solitudine per chi si occupa di un bimbo #rarononinvisibile

- Redazione

In questo numero di Finestra su Casa Voa Voa le Mamme affrontano un argomento delicato e profondo: la Solitudine. Per chi si occupa di un Bambino Speciale, che ha bisogno di cure e attenzioni ventiquattr’ore su ventiquattro, questo genere di sensazione può essere fisica, in conseguenza del fatto che uscire di casa risulta veramente molto problematico, soprattutto in caso di bambini in condizioni patologiche avanzate o quando non è possibile contare su aiuti esterni alla famiglia.

Ma soprattutto la solitudine rappresenta una dimensione emotiva nel senso pieno del termine, poiché il caregiver si sente incompreso, emarginato, escluso dal resto del mondo. Attraverso le preziose testimonianze delle famiglie speciali che se la sono sentita di raccontare come riescono ad affrontare la solitudine nel quotidiano, proseguiamo il nostro impegno nel portare a conoscenza del pubblico, aspetti di un mondo sommerso, diverso, immensamente complesso da vivere e difficilissimo da comprendere dall’esterno, poiché spesso si consuma entro  le pareti della cameretta di un bimbo malato.

 

 


La solitudine per la Mamma di Gabriele

“L’argomento solitudine è davvero tosto da raccontare – spiega la Mamma di Gabriele -. Mi sono trovata sola al momento della diagnosi, quando la disperazione mi ha uccisa dentro, e non sono ancora rinata. La mia paura più grande si era concretizzata: non solo ero diventata madre di un bambino malato, ma per far fronte a questa malattia non esisteva né cura né ricerca.  Ero Sola quando ho comunicato la diagnosi a mio marito, che ha sminuito le mie parole (non essendo state dette da un medico).

Ero Sola quando cercavo mille modi per far assumere al bambino del cibo, poiché Gabriele è disfagico e soffre di reflusso. Ho perso la salute nel cercare di nutrirlo correttamente. Ed ero di nuovo, sempre sola durante il ricovero per la sua prima polmonite: ne ha avute ben 9 in pochi anni. Ho continuato ad essere sola anche le volte successive, nonostante fossi via via più preparata e già sapessi riconoscere un broncospasmo, dosare l’ossigeno, usare il pulsossimetro. Però, da bravo bambino disfagico la cosa più difficile è stata da sempre idratarlo,  pur avendo lui intatto il riflesso della tosse.

Ho creduto in Lele con tutta me stessa, tanto che contro ogni aspettativa, a 4 anni e mezzo ha iniziato a camminare, grazie agli esercizi che gli ho fatto fare, sempre da sola. Ero l’unica a praticare le manovre disostruttive, l’unica che si occupasse di altre cose all’apparenza più semplici ma non meno importanti, come dosare la consistenza della pappa. Ancora oggi, nonostante abbia tappezzato la casa di istruzioni su come preparare il cibo o la somministrazione delle medicine da dargli, mi sento sempre dire che “non so neanche cosa mangia né di che farmaci lo riempio”. Sola, sola, sola. Dentro e fuori. Fuori perché la mia famiglia, composta da 3 persone, fa presto ad esaurirsi. E dentro perché avere un figlio disabile è già estremamente difficile da accettare, se in più ci si sente dire che questa malattia non si conosce, che non esiste al mondo nessuno scienziato che la studi e che non c’è nessun altro bambino uguale al mio sulla faccia della terra, è peggio che sentirsi cadere il mondo addosso.

Mi sono sempre sentita come un granello di polvere in balia del vento.

Però ho imparato a farmi forza, un trauma dopo l’altro: sì perché ogni parte di Lele colpita dalla malattia o ‘rubata una volta acquisita’, per me è stata un trauma. È un trauma vederlo sorretto da 6 persone quando devono fargli i prelievi di sangue, un trauma quando gli infermieri arrivano al quarto o quinto tentativo mancato. Ma nonostante i traumi e i grandi spaventi (le cadute, le corse in Pronto Soccorso, le operazioni finite in rianimazione ecc.) ho trovato la forza, con grande determinazione, per cercare all’estero altre famiglie con Bambini Speciali affetti dalla stessa patologia del mio bambino. Nei momenti in cui mi sentivo sfinita dalla stanchezza, li cercavo su internet, perché era l’unico modo per uscire dal tunnel del “siamo soli, dopo di noi il nulla”.

E così siamo riusciti a trovare alcuni genitori con cui ci siamo sentiti meno soli, scoprendomi anche più forte di quanto immaginassi: le esperienze delle altre famiglie mi hanno dato, nonostante le brutte situazioni che viviamo con i nostri figli, una spinta nel cercare di costruire un futuro per Lele. E intanto ora c’è un piccolo progetto di ricerca avviato su Roma. La neuropsichiatra che lo segue, dopo averlo etichettato come pigro, si è dovuta rimangiare quanto detto, perché Lele ha dimostrato ad ogni esame che si impegna al massimo nel comunicare con la mimica facciale e la gestualità”.

 


La solitudine per la Mamma di Sofia

“La solitudine, da quando Sofia si è ammalata, è stata una condizione che si è sviluppata in maniera direttamente proporzionale all’avanzare della patologia e all’aumento esponenziale del silenzio. Come tutti i bambiniricorda la Mamma di Sofia – quando stava ancora bene Sofia amava essere circondata di musichine e allegri suoni. Lei stessa ne produceva in continuazione: risate, gridolini, parole. Nel giro di pochi mesi dall’esordio della malattia le cose sono però rapidamente cambiate. Non avendo più il controllo dei propri muscoli, Sofia non poteva più accendere il registratore con le canzoni preferite. Non riusciva più a lallare, cantare e pronunciare le sue paroline.

Non rideva più. La mia solitudine è iniziata così, in una condizione prima di tutto riconducibile al silenzio, fuori e dentro la mia anima che non poteva più nutrirsi dell’allegria di Sofia. Quando la bimba è diventata cieca ha smesso improvvisamente anche di sorridermi, e forse è stato quello il momento in cui mi sono sentita più profondamente, drammaticamente sola. Sofia era sprofondata in una dimensione in cui non potevo più raggiungerla, dove dolore e gioia non si distinguevano più uno dall’altra…e io non ero più capace di capire se tutti i miei sforzi per distrarla e regalarle un pizzico di serenità erano utili o no. Senza il suo sorriso, anche solo teneramente accennato, non avevo più il termometro della sua soddisfazione. Ho iniziato allora a sentirmi inesorabilmente sola, frustrata, persa.

Il sorriso di Sofia era stato la mia stella polare e adesso non restava che il buio assoluto in cui brancolare. Per sopravvivere, per trovare la forza di alzarmi la mattina e continuare a costruire intorno a mia figlia un mondo di allegria e condivisione, per la prima volta ho sentito il bisogno di trovare altrove una valvola di sfogo. Se fino a quel momento il suo viso mi era bastato a giustificare un’esistenza di trincea contro il dolore e la malattia, ora che non potevo più bearmi del Suo sorriso Magnifico avevo bisogno di ricaricare in qualche modo le pile. Allora ho iniziato a scrivere con più foga e più intensità, relegando alle parole scritte e al loro mondo immaginario il duro compito di spurgarmi dal dolore e offrirmi brevi parentesi di serenità, nel contesto di una dimensione non terrestre, onirica, dove tutto è ancora possibile…anche la spensieratezza, anche la tracciabilità dei confini del dolore.

Scrivevo di notte, di mattina prestissimo, mi svegliavo apposta per avere un’ora o due tutte per me. La giornata restava dedicata a Sofia e alle nostre piccole preziose abitudini che ci tenevo rimanessero appuntamenti allegri, nonostante la deriva di tristezza in cui ero sprofondata. Al tempo non avevo ben chiaro tutto questo, mi preoccupavo di vivere e basta, un giorno dopo l’altro, un passo dopo l’altro, accogliendo ogni piccola gioia come il dono più grande nella vita. Da quando Sofia è volata in cielo mi sono resa conto che il mondo non ha niente da offrire di meglio rispetto a quella che era la nostra piccola preziosa routine. Sorriso o no, Sofia era comunque capace di riempire il vuoto che la malattia aveva scavato intorno ai cuori della nostra famiglia. Adesso anche scrivere ha perso di significato e valore.

Sofia era la mia generatrice di emozioni, non soltanto la stella polare da seguire.

Ci sono giorni in cui mi sento svuotata, come se la parte più significativa di me (l’unica importante) fosse volata via con lei in una dimensione a cui non posso più connettermi. Allora mi siedo sul divano o in camera sua. Accendo una candela, una piccola lucina di fiammella, per chiamare Sofia vicino a me, e mi metto a ricordare. Potrei uscire ma non lo faccio, potrei invitare un’amica ma non lo faccio, potrei cercare distrazione ma so che non sarebbe ciò di cui ho realmente bisogno. Quel che mi serve è cercare e trovare la mia bambina. Restare comunque con lei, in qualche modo…un modo nuovo.

A volte accendo una musica che ascoltavamo insieme, le parlo, oppure le racconto le sue favole preferite se la nostalgia è troppo forte. E combatto così la solitudine…. abbandonandomi paradossalmente a questa situazione di distacco dal resto del mondo, per un tempo che può variare da qualche minuto a qualche ora. In questa condizione riesco persino a scrivere, a sorridere, immaginando di essere riuscita a riappropriarmi per un po’ della parte più preziosa di me stessa”.

 


La solitudine per la Mamma di Rossana

“Rossana é vissuta 9 mesi nella mia pancia ed altri 15 mesi e 9 giorni fuori, di cui 3 mesi e mezzo da bimba sana! Il suo arrivo ha colmato totalmente le ‘silenziose solitudini del cuore’ mio e di Massimo spiega la Mamma di Rossana -, ma lo abbiamo capito solo dal momento che ho saputo di essere incinta, che in fondo noi due ci sentivamo un po’ soli. La nostra solitudine è avanzata in maniera inversamente proporzionale rispetto alla malattia: lo so che può sembrare strano per cui mi spiego meglio. Nell’anno in cui la malattia ha fatto TUTTO (l’esordio con i primi sconosciuti sintomi, due mesi circa di una sottospecie di stabilità e poi un continuo, rapidissimo ed inesorabile avanzare fino al famoso esito infausto ben specificato alla diagnosi!) non c’è stato il tempo, lo spazio e la possibilità di essere o sentirsi soli.

Nella realtà dei fatti lo siamo stati sia nel senso più ‘fisico’ del termine che ‘morale’, ma se devo essere sincera, solo nella presa in carico dei medici e degli ospedali che ci hanno rimandati a casa ad aspettare che morisse. Forse un anno é un tempo troppo breve per provare quella solitudine profonda che ti ripiega e richiude su te stesso, o almeno questa non ce l’hanno lasciata sentire. Parlo di coloro che hanno avuto la forza e il coraggio di starci vicini, della ‘famiglia’ di Rossanina composta da persone capaci di legami profondi e unici indipendentemente dal legame di parentela; gli Angeli in carne e ossa (le 5 professioniste che l’hanno amata e curata), l’associazione Voa Voa che ha saputo donarci tutto ciò di cui avevamo bisogno noi tre, e Casa Voa Voa, ovvero quel gruppo di mamme e papà Speciali che sono fratelli e sorelle di vita. Grazie a loro non eravamo soli e non lo siamo.

Tutti ci sono stati vicini ‘in punta di piedi’ quando serviva, o in maniera più decisa quando la Paura, la Confusione e l’Indecisione diventavano troppo forti e paralizzanti. Roxy, Mamma e Papà si sono sempre fatti molta compagnia perché ‘sentivamo’ che per lei era giusto così. Se infatti ci fossimo lasciati troppo pervadere dalla solitudine, avremmo sprecato del tempo prezioso, troppo prezioso. Ora che una parte di Rossana non c’è più, la sua mancanza ci da un senso di amputazione più che di solitudine! Lei era, é e sarà una parte di noi, e senza di lei una parte di noi é via per sempre. Quando però questo sentimento ci pervade, ci pensa proprio Lei a farci sentire che sí, il suo corpicino non c’è più. Ma la sua energia resta con noi, in noi. Se non ci si lascia prendere dalla realtà che gli occhi mostrano”.

 


La solitudine per la Mamma di Natale

“Ho sempre odiato la solitudine – spiega la Mamma di Natale fino a quando ho conosciuto la Leucodistrofia Metacromatica e in poco tempo tutto è cambiato. Natale, che è la mia ragione di vita, è tornato ad essere un neonato, di ormai 10 anni, che aimè non sorride e non piange neanche più. Dopo la disperazione iniziale data dalla diagnosi, nulla aveva più senso: la solitudine si era impossessata della nostra anima e ci divorava giorno per giorno. Però non potevo sopportare tutto questo, perché Natale c’era accanto a me, e c’è ancora. Mi son detta allora che doveva vivere come tutti gli altri bimbi, quindi l’ho iscritto al nido pensando che non l’avrebbe mai frequentato, e invece come sempre il mio guerriero mi ha stupita. Anche se con mille difficoltà è riuscito a fare le sue esperienze assaporando un po’ di quella vita che la malattia gli ha negato.

Gli operatori che mi aiutano nella gestione delle nostre routine, cercano di arginare il più possibile quel senso di emarginazione che comunque la patologia comporta. Abbiamo lasciato nel dimenticatoio la scuola calcio che tanto sognavamo per lui e tante altre cose. La verità però è che questa solitudine, per quanto io cerchi di mandarla via, riemerge ogni qualvolta passo davanti a un campetto e vedo tutti quei bimbi palleggiare. Oppure mi assale nelle sere d’estate, in cui desidererei portare mio figlio a mangiare un gelato. Poi però penso che quella è un’altra vita, una vita che non appartiene a un bimbo affetto da una malattia rara come Natale”.

 

 

 


La solitudine per la Mamma di Matilde

“La solitudine per me è un insieme di molteplici sensazioni –spiega la mamma di Matilde-. In primo luogo la solitudine tangibile nella gestione quotidiana della cura di mia figlia: tutte le scelte sono prese da me, con la consapevolezza di dover fare il meglio per lei senza poter contare sull’aiuto di nessuno. Solitudine e noia nella routine della vita di tutti i giorni, soprattutto nel periodo invernale, perché costrette a preservare il più possibile la salute di Mati, e questo comporta inevitabilmente limitare la nostra vita sociale, il rapporto con gli amici ed altre esperienze a contatto con il mondo esterno.

Nonostante tutto capisci chi sono i veri amici e le persone che contano perché il tuo isolamento non li allontana.

La mia sensazione di abbandono non è comunque riuscita né mai riuscirà a cambiare la mia sensibilità verso gli altri o la mia necessità di aiutare il prossimo.”

 

 

 


La solitudine per la Mamma di Leonardo

“Io credo che la solitudine non sia sempre un sentimento negativo – spiega la Mamma di Leonardo. Quante volte nella vita si preferisce essere soli per pensare, per prendere delle decisioni, oppure per sbollire un’arrabbiatura. A me è successo, ma deve essere una scelta. Quando non è per scelta, allora si prova quella solitudine che fa male, che ti spezza il cuore e ti fa mancare l’aria. Esattamente questo mi è capitato quando mi comunicarono la diagnosi di Leonardo, quando tutti i medici non sapevano cosa fare o, peggio ancora, non potevano fare nulla. In quel momento mi sono sentita morire dentro e tremendamente sola, perché non c’era nessuno che potesse salvare la vita del mio bambino.

Certo, fisicamente non sono mai stata sola, perché mio marito, i genitori e gli amici li ho avuti sempre tutti presenti. Però mi sentivo sola dentro e nessuno poteva starmi vicino per alleviare questo tipo di sensazione. Ancora più sola -o per meglio dire abbandonata– mi sono sentita quando ho realizzato che nemmeno Dio poteva donarmi quel miracolo che tanto chiedevo. Ho pregato che guarisse il mio bambino e in cambio si prendesse la mia salute e la mia stessa vita. Ho implorato che almeno Lui ci aiutasse, dal momento che sulla terra nessuno può farlo. Ancora oggi mi sento sola quando Leo sta male e sento i medici dire: “È la malattia che procede, non c’è nulla da fare”. Oggi però il mio leoncino mi aiuta ad affrontare questa solitudine, ripetendomi ogni giorno che: “Io ci sono e sono forte”. Leonardo è la mia vita, è l’aria che mi manca quando mi sento sola”.

 

 


La solitudine per la Mamma di Letizia e Leo

Io ho paura della solitudine –ammette la Mamma di Letizia e Leo-, sono sempre alla ricerca di qualcosa che riempia il mio tempo e che non mi faccia pensare a cosa sto affrontando, ma soprattutto a quello che dovrò affrontare. Il mio carattere mi ha portato a soffocare il dolore per aiutare la mia famiglia ad accettare la malattia dei miei bimbi, che tutt’oggi non ha un nome né lascia una prospettiva di futuro. Dopo nove mesi dalla nascita di Letizia, ero già in attesa di Leonardo. Anche in quel momento, con l’aiuto di mia madre, per andare avanti ho trasformato il mio dolore in energia, continuando ad addolcire nel corso degli anni tutte le brutte notizie che riguardavano i miei figli.

Non mi sono fatta domande del tipo ‘Perché a me? Perché a loro?’, forse per non sentirmi abbandonata nel gestire tutto da sola. È successo però che il mio matrimonio ad un certo punto è finito, perché tutte le responsabilità che ho voluto accollarmi pur di non veder soffrire chi amavo, hanno fatto sì che al momento del mio crollo nessuno sapesse aiutare me, e perciò mi sono ritrovata sola. Da quel momento ho riprogrammato la mia vita senza dover proteggere nessuno, a parte i miei figli.

Adesso non ho più la mia mamma, lei che mi ha caricato di forza fin dalla loro nascita. I miei spazi sono pieni di persone che mi aiutano a gestire i ragazzi, evito di rimanere sola a casa perché adesso sono stanca e rischierei di tirar fuori tutte le cose che finora ho represso. Ma questo non posso proprio permettermelo, perché non vorrei mai che anche i miei figli si sentissero soli”.

 

Grazie a tutti per l’attenzione!

La Redazione di “Finestra su Casa Voa Voa” ringrazia le Mamme e i Papà, membri della chat, per la preziosa collaborazione.

Barbara 

Caterina

Giacomo

Guido 

Maurizio

 

Voa Voa!