Uno Tsunami chiamato Diagnosi: seconda parte

- Guido De Barros

Dopo aver affrontato, nel precedente appuntamento, l’argomento della comunicazione della diagnosi attraverso varie, dolorose, testimonianze di mamme di Bambini Speciali, dedichiamo quest’uscita a quei genitori che hanno vissuto una situazione, per certi versi, ancora più sofferente e traumatica. In alcuni casi infatti, le strutture ospedaliere, anche altamente specializzate, intuiscono la patologia neurologica o degenerativa del bambino, ma non riescono a individuarla con esattezza. E così, quando l’iter diagnostico va per le lunghe, le famiglie sono costrette a faticosi ed estenuanti viaggi della speranza, tra vari centri specialistici italiani e a volte anche esteri, per cercare di dare un nome alla patologia del proprio figlio, che in alcuni casi però, resta per sempre ignota. A guidarci in questo viaggio saranno alcune foto in bianco e nero scattate dalla Mamma del piccolo Emanuel:  “Risalgono ai tempi delle prime diagnosi spiega -. In quei momenti fare belle foto non era la mia priorità. Le ho scattate solo per avere un ricordo nel tempo”.

Ricordo che ora ha voluto condividere con tutti i lettori di Finestra Voa Voa!

 

“I pagliaccetti che ci consolano dopo i colloqui con i dottori”

 


La storia di Leonardo e Letizia

La Mamma di Leonardo e Letizia ha affrontato un percorso interminabile, senza mai arrivare a scoprire con esattezza di cosa soffrono i suoi due bambini.

“Ricevere una simile diagnosi su un figlio che fino a poco prima era autonomo e senza problemi apparenti, credo che sia la prova più dura che la vita possa dare. Anche noi, purtroppo, ci siamo imbattuti negli stessi medici del Meyer – ricorda la Mamma di Leo e Letizia che si sono mostrati privi di delicatezza e sensibilità. Letizia è nata a Careggi dopo 17 ore di travaglio. Mi hanno somministrato la meperidina ma non c’è stato il tempo di smaltirla, sono iniziate le contrazioni e Letizia è uscita assorbendo in pieno il farmaco. Non respirava, era cianotica. In sala iniziò un via vai di anestesisti. Le diedero 72 ore di prognosi per vedere se aveva subito danni, e quando la dimisero ci assegnarono solo alcuni controlli da fare nel primo anno di vita, ed elettroencefalogramma ogni mese. Insomma nulla di preoccupante. Invece, verso i sei mesi mi accorgo che era lenta nei movimenti, non riusciva a stare seduta, non afferrava gli oggetti. Era una pacioccona che adorava mangiare, e io venivo rassicurata che la bambina era pigra perché in sovrappeso. Il suo sguardo era sempre attento, e si faceva capire mugolando. Verso i 9 mesi programmo dei controlli al Meyer con il famoso dottor Guerrini con la genetista dottoressa Donati.

“Emanuel va a fare la risonanza che ci farà conoscere altri lati dolorosi sulla sua salute”

Ricoverano Letizia, le fanno la biopsia muscolare e vari esami per una settimana, con tre o quattro prelievi al giorno. Per la mia bimba è iniziato il calvario. La biopsia poi mi ha distrutto, perché mi sono resa conto di quanta poca delicatezza usano per mantenere più sereno possibile un bambino che deve subire tutto questo. L’anestesia che le hanno fatto è stata talmente blanda, che quando è uscita si sosteneva alla culletta con le sue manine e urlava, cosa che non riusciva  a fare per la sua ipotonia. Da quel giorno, appena viene sdraiata in un letto che lei non conosce, alza la testa, apre le braccia e sgrana gli occhi, simulando una crisi epilettica. Da lì, Letizia viene mandata da un’altra genetista che adesso non c’è più, l’unica persona umana che collaborava con il Meyer esternamente. Iniziano i sospetti di malattia mitocondriale, con ipotonia muscolare ed epilessia. Purtroppo nessun esame ha mai confermato questo sospetto o altra patologia: poteva essere stato anche il parto, visto le complicazioni avute. Il mio stato d’animo, in quei momenti, mi ha portato a proteggere lei, rassicurandola sempre. Non pensavo mai a me, ma ad affrontare tutto questo e a far capire anche a mio marito che, è vero, Letizia aveva un problema, ma col tempo l’avrebbe pian piano recuperato. Oggi, ripensandoci, credo di aver reagito così per difesa, invece di lasciarmi andare a un pianto senza fine, alla disperazione più profonda. Il dottor Poggi ci prese a cuore e iniziò a spiegarci, con poche parole, che quella di cui era affetta la nostra Letizia, era una malattia rara generica, di quelle che non sempre si giunge ad avere una diagnosi. Nel periodo in cui indagavano per la patologia di Letizia, è arrivata un’altra notizia inaspettata: ero in attesa di un altro bimbo, chiaramente non cercato. In quel momento mi prese la rabbia, perché era la cosa che più desideravo ma non in quel momento, in cui ancora navigavamo in un mare sconosciuto e senza meta. Allora ho chiesto consiglio a tutta l’equipe del Meyer e la risposta è stata:

Stia serena, perchè quella che affligge Letizia è una patologia rara. Col 99% di probabilità non si trasmetterà ad un altro figlio. Per lo più, se è di sesso diverso, è impossibile”.

Forte di questa  rassicurazione, decisi di portare avanti la gravidanza, speranzosa che l’avere un altro figlio mi avrebbe dato più forza nell’affrontare la malattia di Letizia. Trascorsi la gravidanza di Leonardo con la preoccupazione per Letizia che entrava e usciva dall’ospedale per le sue crisi epilettiche, che noi genitori non riuscivamo ad accettare e ad affrontare. Trascorsi nottate in ospedale col pancione, e mia mamma sempre accanto me, giorno e notte. Giunto  il momento del parto, il mio stato d’animo era congelato perché non potevo permettermi di mollare. Il parto fu perfetto. Leonardo venne alla luce in tre ore, bello come il sole, perfetto fisicamente. Lui, a differenza di Lety, l’ho avuto sul mio petto e baciato appena uscito, ma la mia preoccupazione era che lo visitassero e mi sarei goduta poco quell’istante. Come tutte le mamme, aspettavo che mi portassero in camera Leonardo, invece nulla. E così sono tornata a provare la stesse sensazioni di paura e sconforto che ho provato con Lety. Ho affrontato di petto la cosa chiedendo spiegazioni ai medici, in questo caso alla Tin di Prato. Conoscendo che era fratello di Lety, per fare ricerca su di una diagnosi sospetta, Leonardo dovette subire anche l’aspirazione del liquido spinale. Volevano tentare di arrivare ad una diagnosi  prima del Meyer, che ad oggi non è riuscito. Solo lì, chiusa in una stanzina con un’infermiera che cercava di tranquillizzarmi, ho sfogato tutta la mia rabbia. Solo quell’infermiera e quella stanza hanno sentito tutto quello che avevo trattenuto in 17 mesi. In tutto questo, ho voluto tutelare il babbo dei miei figli affrontando i medici sempre da sola.

L’unica cosa da fare, era filtrare tutto quello che giorno dopo giorno scoprivo. Perché se lo avessi reso partecipe ad ogni visita e ad ogni ricovero, sarei crollata anch’io. E i miei ragazzi sarebbero rimasti soli con due genitori paralizzati e non combattivi. Da lì, decisa a vivere per i miei figli, sono uscita indossando una corazza che tutt’oggi mi porto addosso. Qualunque sia l’evoluzione di queste patologie, che per i medici restano ignote, io ci sarò, sperando che la corazza resista”.

 


La storia di Francesco

Anche per il piccolo Francesco l’iter diagnostico in giro per l’Italia è stato sofferto. Ma nonostante le tante visite e gli esami, ad oggi non si conosce né il nome esatto della malattia di cui soffre, né la sua evoluzione.

“All’inizio lo vedevamo crescere, sì piccolo e sottopeso, ma facendo tutte le cose che facevano gli altri bambini – ricorda la Mamma di Francesco -. Fino al giorno in cui mi accorsi che aveva un nodulo sulla gamba. Mi preoccupai, lo portai dalla dottoressa che fece un’ecografia e mi disse che poteva essere dovuta alla vaccinazione. Ma dopo un altro mese, a Francesco ne comparve un altro, ancora più grande, sull’altra gambina. Lo riportai dalla dottoressa, mi disse che poteva essersi fatto male visto che iniziava a scalciare. Ma in due settimane ne spuntarono tanti altri che lo portai urgentemente da un pediatra a pagamento. Quando vide le sue gambe tutte le gambe piene di lividi, mi mandò immediatamente al Perrino di Brindisi, dove mi ritrovai ricoverata con Francesco in una stanza, circondato da sette dottori che lo guardavano e riguardavano senza sapere cosa avesse. Il ricovero durò 25 giorni, poi ci mandarono a casa in attesa dei risultati della biopsia cutanea. In attesa della diagnosi, trascorremmo venti giorni d’inferno. Poi ci chiamò il primario, c’invitò a recarci in ospedale dove ci comunicò il referto: ‘panniculite’. Ci consigliò però una visita specialistica, dunque siamo andati a Bari da un dermatologo pediatrico, che visitò Francesco e si prese tre giorni per studiare il caso. La sua diagnosi fu ‘panniculite lipoatrofica atrofizzante’, Francesco era l’unico bambino in Italia ad esserne affetto, e come tentativo, il bambino doveva iniziare subito una cura pesante di cortisone. Ogni tre giorni lo portavamo a Bari per permettergli di controllare l’evoluzione dei noduli. Francesco rispose bene ala cura, pur mantenendo lesioni gravi sulle gambine. La cosa importante è che la malattia sembrava essersi bloccata e così io e il papà tirammo un sospiro di sollievo. Continuammo per sei mesi a portarlo da questo dottore a Bari prima una volta a settimana, poi ogni due e infine una volta al mese. Il peggio sembrava essere passato. Notando però che uno dei piedini si era torto, lo portai a visita da una fisiatra, che mi consigliò di farlo visitare al Niat. Francesco dopo quel calvario era cambiato, non portava più niente alla bocca, non emetteva più versi, ma io pensai a un blocco momentaneo. La neurologa mi disse che il piccolo aveva un ritardo psicomotorio, e che aveva bisogno di fare kinesiterapia, anche perché aveva orami 15 mesi e ancora non riusciva neanche a gattonare. Grazie alla sua terapista migliorava sempre più, ma più i giorni passavano e vedevo le gambe di Francesco assottigliarsi. Notai anche una leggera distorsione del ginocchio e lo portai a visita da un reumatologo pediatrico, che notò del gonfiore e prescrisse una cura di cortisone, al termine della quale il ginocchio era sì sgonfiato, ma comunque Francesco non riusciva a fletterlo, e se ci provava, piangeva. Riuscii a portarlo al Gaslini, dove il primo ricovero durò 25 giorni con esami di tutti tipi. Ci mandarono a casa dicendoci che avrebbero rivalutato Francesco dopo 6 mesi. Il secondo ricovero durò 30 giorni in cui lo sottoposero ad altri esami. Dopo 40 giorni un nuovo ricovero di altri 9 giorni. Il referto parlava di una traslocazione genetica rara. Francesco era l’unico bambino con questa anomalia cromosomica. L’unica cosa che al momento è da tenere sotto controllo, ci dissero, è la Lipodistrofia che ha sviluppato agli arti inferiori e a entrambe le manine. Il problema è che, trattandosi di una malattia rara, nessuno ha saputo dirci l’evoluzione. Finora è localizzata agli arti, ma nessuno ha saputo garantirci che non risalga fino ad altri organi. Ogni volta c’è un problema in più: ora stanno valutando quando è meglio operarlo alla membrana cardiaca, e ha sviluppato un’artrite reumatoide infantile. Vogliamo aiutarlo in tutti i modi, ma mi sento comunque limitata, perché impossibilitati ad affrontare altre spese.

Non mi do pace, nessuno conosce la malattia e l’evoluzione, e io non so contro cosa devo combattere. Non sappiamo se e quando la Lipodistrofia attaccherà gli altri organi. Perciò viviamo alla cieca, con un’eterna paura del domani”.

“Aspettando fuori dalla Terapia Intensiva”

 


La storia di Benedetta

L’iter diagnostico della piccola Benedetta, lungo e doloroso, non ha portato a individuare la sua patologia, così come resta ignoto il suo decorso.

“Anche la nostra bambina ancora non ha una diagnosi – spiega la Mamma di Benedetta -. Fino ai 12 mesi è stata seguita da un pediatra che ci rassicurava sul suo ritardo nel conquistare le tappe di sviluppo, dicendoci che alcuni bambini se la prendono con più calma. Siamo arrivati al primo ricovero in un centro di ricerca dopo un cambio di pediatra, con inserimento all’asilo nido e l’inizio di un percorso di neuropsicomotricità presso l’Asl locale. Benedetta aveva ormai due anni e mezzo. Dopo un Eeg che ha evidenziato una situazione epilettica allora ancora latente, e dopo aver analizzato le immagini della risonanza magnetica, la neuropsichiatra mi ha convocata per comunicarmi il sospetto di malattia mitocondriale, poi confermato dalla successiva biopsia fatta sulla coscetta di Benedetta. Ricordo che ha iniziato a disegnare su un foglio un mitocondrio, tentando di spiegarmi con parole semplici di che cosa si trattasse. Io riuscivo solo a guardare Benedetta, che poco più in là giocava seduta sul pavimento, allora ancora ci riusciva, con delle costruzioni colorate. Solo dopo qualche minuto sono riuscita a dirle che sapevo cos’era un mitocondrio e ad iniziare a farle una serie di domande sul decorso della malattia, cui non poteva dare risposta. Il decorso della malattia d Benedetta non è quello classico delle malattie mitocondriali, per cui ora siamo al punto in cui ci dicono che il difetto mitocondriale potrebbe essere un effetto di una causa primaria ancora sconosciuta. Ad oggi la diagnosi migliore fatta a Benedetta è quella del suo fratellino Pietro, quasi quattro anni: lui dice che Benedetta è magica”.

 

Sì proprio così – aggiunge il Papà di Benedetta -.

Ci siamo accorti che la medicina è una scienza inesatta, che in molti casi non sa assolutamente dare risposte.

Non avendo una diagnosi certa, il nostro percorso di scoperta della malattia è stato graduale: dai primi suoi sguardi che non ti fissavano, alla comparsa  del nistagmo, al ritardo a stare seduta, alla mancanza di linguaggio. Tante cose che man mano si sono sommate. Ogni ricovero col pensiero che magari sarebbe stata la volta della diagnosi, del ‘macigno sulla testa’ che non è ancora arrivato e probabilmente non arriverà mai.

L’arrivo di Pietro è stato una benedizione. Ripensandoci col senno di poi, nonostante l’angoscia della scoperta della malattia di Benedetta, ci ha ‘obbligati’ a pensare anche a lui, cucciolo, e ci ha dato e ci dà la forza per andare avanti”.

“Teddy, l’orsetto di peluche di Mr. Bean, da Londra è arrivato a far compagnia al suo nuovo padroncino Emanuel, durante il ricovero che lo ha visto sfiorare la morte”.

 


La storia di Aurora

Il non conoscere il nome della patologia della propria piccola, a volte può accendere anche una speranza nel cuore dei genitori. Fino al momento in cui, come nel caso della Mamma di Aurora, non si realizza che, purtroppo, quello che dovrebbe essere soltanto un brutto sogno, è invece dolore e realtà.

“Aurora ha 14 anni. La prima convulsione avvenne 4 giorni dopo la vaccinazione, a nove mesi – ricorda la Mamma di Aurora -. A otto anni ci arriva una diagnosi di deplezione genetica, che si rivelò falsa, e negativa la sindrome disgenetica. Perciò ora sono ripresi gli accertamenti su mia richiesta al Meyer. Nel corso del tempo ho ascoltato e letto ipotesi mediche, per riuscire a trovare una motivazione agli esami sempre negativi. A 2 anni il primo stato di male epilettico. Il 24 febbraio del 2005, alle 20.30, la prima crisi convulsiva in stato febbrile. Aurora era diventata cianotica, l’ho sentita andare via e tornare. Sono riusciti a rianimarla, e con l’ambulanza è stata portata al Pronto Soccorso di Prato. La situazione era grave, ma dopo l’Eeg negativo viene dimessa. Nei mesi però, lo sviluppo psicomotorio si ferma. La porto a Careggi per una visita ambulatoriale, ma mentre la dottoressa Antonelli la esamina, Aurora inizia a piangere e poi di colpo si addormenta. La dottoressa mi chiede da quando tempo capita questa cosa, poi mi dice che si tratta di epilessia, che la situazione è molto seria e che non può mandarla a casa. In quel momento vengo scaraventata giù, in un pozzo di ansia e dolore senza fine. Dal momento che mi venne consigliata Verona, la portai dal Professor Guerrini in libera professione. Dopo aver fatto tre ore d’anticamera, quando entriamo neanche ci guarda. Ci dice: “È  Rett”. Alla mia domanda “è grave?”, ci risponde :

“Signora, è venuta da un medico non dal mago con la sfera di cristallo”

. “La situazione di sua figlia è seria – mi spiega il professor Dalla Bernardina – solo il tempo ci dirà cosa le accadrà”. Ogni volta mi sento ripetere “prognosi ignota e infausta”, e ad oggi la diagnosi è ancora ignota. Alcuni medici sono stati davvero spietati con me. Mi hanno lasciata da sola nel terrore, senza consolazioni. A Firenze me la davano per morta, ma a Verona l’hanno sempre salvata. Anche quando ha avuto l’osteomielite l’avevano già data per spacciata, eppure lei ce l’ha sempre fatta. Aurora per certi versi è dunque un ‘affronto’ alla medicina, stando alla quale la sua vita terrena doveva essere finita da un bel po’. Il non sapere la diagnosi mi ha fatto continuare sempre a sperare. Almeno fino a quando, a maggio del 2011, sono andata a ritirare da sola la sua prima carrozzina, realizzando che era tutto vero. Da allora la sua degenerazione è sempre più evidente.

Dio solo sa la rabbia che provo di fronte all’impotenza. Mi sento sempre più fragile nel sentirmi ripetere che più va avanti, più può lasciarmi. Penso sempre che ogni suo giorno in più è anche un giorno in meno. Ma Aurora mi aiuta a convivere anche col paradosso del tempo che non è tempo. È lei la mia Maestra di vita e non-vita per eccellenza”.

“Si torna a casa decisi ad affrontare mano nella mano la vita che verrà, un ostacolo alla volta. Consapevoli e uniti. Sempre”.

 


La storia di Emanuel

Nel caso di Emanuel, come di tanti altri bambini, alla sofferenza, all’ansia e all’incertezza che di per sé un interminabile iter diagnostico provoca nei genitori, si aggiunge il dolore di ricevere un trattamento, da parte di certi medici, irrispettoso e assolutamente indegno.

“Per noi il momento della diagnosi non è mai finito – ricorda la Mamma di Emanuel . Ad ogni day hospital si scoprono aggravamenti, e se non ci sono novità, i dottori rispolverano con tono drammatico quello che già sappiamo. Tornando a 5 anni fa, non giudico il dottore che bruscamente ci ha messo di fronte alla gravità della situazione. Aveva pochi minuti per intervenire e quindi il tempo di fare tanti ricami sulla situazione non c’era: “Il bambino è praticamente morto, potete scegliere se salutarlo ora e lasciarlo andar via, tanto non sta soffrendo. Oppure tentare un’operazione salvavita per la quale non ci sono neanche i parametri per operare (piastrine poche oltre a coaugulopatia, bradicardia, reni andati ecc.). Si salva uno su un milione, ma in quel caso resterebbe comunque in stato vegetativo tutta la vita: cosa volete fare?”. Considero questa la sua prima diagnosi. Non posso chiamarla ‘fulmine a ciel sereno’, perché per quanto nessuno nell’ospedale dov’è nato ci avesse illustrato la situazione, io da mamma avevo capito che stava accadendo qualcosa di molto grave. E quando ho visto Emanuel per la prima volta ne ho avuto la conferma: “Signora, dorme” mi avevano detto, ma avevo subito intuito che invece era in coma. Con l’argomento diagnosi è inevitabile tornare con il pensiero alla terribile storia della sua nascita. La storia di Emanuel non è per i deboli di cuore, diciamo che è un mix tra un horror, un poliziesco e uno di quei film strappalacrime dove alla fine c’è il miracolo. Alla luce di tutto il nostro vissuto, possiamo tranquillamente catalogare i vari momenti diagnostici con i relativi medici in varie categorie. Ci sono ‘I Sadici’, ovvero quei dottori che ti sbattono in faccia la diagnosi che più è dolorosa più lo fanno con un ghigno sorridente. Aggiungendo qua e là una dose di aggettivi/ insulti per condire il tutto, e guai a farti scendere una lacrima. Perché subito viene tirata in ballo la “selezione naturale” e il “fatene un altro che questo campa poco”. Ci sono poi quei dottori che appartengono alla categoria “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Ti comunicano la diagnosi con un tono così drammatico, che in sottofondo ti pare quasi di sentire la colonna sonora di ‘luci della ribalta’. E non mancano di elencarti nei minimi dettagli tutto quello che potrebbe accadere e sicuramente accadrà, assicurandosi che, prima che lascino lo studio, i genitori abbiano perso tutte le speranze, perché secondo loro non ce ne sono ed “è così che funziona”. Ci sono poi gli Impauriti, ovvero quei dottori che temendo la reazione dei genitori, ti dicono tutto o andando molto sul vago, o supervelocemente perché hanno da fare. Quelli che poi torni a casa, ti informi su Google e vieni travolto da infarti multipli. Tutto questo per dire che nessuna di noi cerca o si aspetta il dottore con il camice a pallini e il sorriso a 52 denti, che dica “il suo bambino correrà nei campi dorati libero di rincorrere le farfalle”.

Non abbiamo bisogno che si zuccheri una realtà per la quale siamo più che consapevoli. Abbiamo però bisogno di due cose: Rispetto ed Educazione, le stesse che noi portiamo ogni qual volta ci rechiamo in ospedale e che sembrano essere dovute solo al paziente.

I nostri bambini non sono pezzi di carne andati a male ma esseri umani. Bambini come gli altri, e nessun bambino merita di essere disprezzato o catalogato come rifiuto.

Spesso mi metto nei panni dei dottori che si ritrovano a discutere con genitori che sono insopportabili e capisco il loro essere scostanti o spazientiti, sono umani anche loro, anche se a volte non sembra. Ma quello che chiedo è solo educazione e rispetto senza fronzoli e smancerie, solo quello.

Gradirei una diagnosi dove a mio figlio non venisse dato dello ‘spastico’ in senso dispregiativo e non riferito alla patologia. Una diagnosi dove venisse chiamato “bambino/Emanuel/ vostro figlio” e non “quello”. Vorrei mi venisse riferito il suo stato di salute senza commenti ridicoli e fuori luogo come l’ultimo di qualche giorno fa. Quando mi è stato proposto un intervento ai testicoli, e cercando di volerne sapere di più, mi è stato risposto con aria stupita, scocciata e con il famoso sorriso di chi sta per fare una battuta di quelle belle: “Perché? Non mi dica che si aspettava nipotini da lui? Che ci fa lui con i testicoli?”. Ecco, rispetto ed educazione, chiedo solo questo. Emanuel non parla, non cammina, non vede: sono io la sua voce, i suoi occhi, le sue gambe. Sono un po’ come Goldrake, io il robot e lui il mio pilota. Che siano dottori o meno io rispondo al posto suo, a volte in modo pungente, a volte arrabbiata, a seconda di come il mio interlocutore si pone. Posso sembrare una persona odiosa ma vi assicuro che il mio atteggiamento è temperato dai vari colpi incassati in 5 anni sulla difensiva. Questo il modo in cui mi sono state riferite alcune diagnosi:

“Se dovesse percepire anche solo un ombra andare a Lourdes” (diagnosi cecità); “Avanti lo spastico!”(diagnosi di doppia emiparesi spastica);  “È un viziato fifone cag….zi” (diagnosi di epilessia farmacoresistente); “Non mi dica che si aspettava nipotini da lui?” (suggerimento operazione ai testicoli); “Fatene un altro, questo campa poco” (diagnosi generale); “Vaccinate tranquillamente, tanto qualsiasi cosa succede non è un problema. Perché morirà comunque, anche per un raffreddore” (consultazione per vaccinazioni); “La selezione naturale con lui ha fallito, ma succede” (diagnosi encefalopatia); “1 su 1000 è tranquillamente sacrificabile” (riferito alla possibilità di non sopravvivere a una vaccinazione). E potrei continuare all’infinito. Educazione e rispetto. Rispetto…”.

 

Grazie a tutti per l’attenzione!

La Redazione di “Finestra su Casa Voa Voa” ringrazia le Mamme e i Papà, membri della chat, per la preziosa collaborazione.

Barbara 

Caterina

Guido 

Maurizio

Voa Voa!