Un anno senza Sofia

- Guido De Barros

Piccola Sofia,

 

sei morta tra le nostre braccia, in una sera non troppo fredda di dicembre. Stretta in un abbraccio unico e trino, com’è sempre stata la nostra vita insieme.

Il profilo di Sofia nella prima versione della copertina del libro “Voa Voa”

Le infermiere della Rianimazione entrarono in stanza interrompendo troppo presto il tempo solo nostro dell’addio, dicendo che dovevamo prepararti, detergerti, pettinarti, andare a scegliere l’abitino che avresti indossato per sempre. “Deve essere vestita di bianco –ha detto la mamma-, perché gli angeli dell’iconografia sono sempre vestiti così.” Allora siamo tornati a casa per prendere il tuo vestitino bianco, quello che i nonni ti avevano regalato appena cinque giorni prima, per Natale. La macchina era un abitacolo surreale di silenzio e memorie ripercorse. Di sguardi scambiati tra un semaforo e l’altro, nella lunga strada che separa il Meyer da casa; i tuoi genitori non avevano bisogno di parole, né tra loro né con gli altri. In quelle ore nessuna delle persone che ti erano state care al mondo avrebbe saputo che tu non ne facevi più parte. Fino al giorno seguente sarebbe stato il nostro segreto, quasi volessimo darti il tempo di ascendere al cielo senza distrazioni.

 

Quando il babbo è entrato nella tua camera, l’ha scoperta ancora drammaticamente piena di te. Delle tue cose belle, i libri sonori con le figure colorate che ti hanno fatto compagnia nei tuoi ultimi anni, e di quelle brutte, le bombole di ossigeno che ti hanno aiutato a respirare nei tuoi ultimi giorni. Camminava piano, come avesse avuto paura di svegliarti, come se il lettino coi peluche e i cuscini posturali ospitasse ancora il tuo corpicino esile. Ha aperto il cassetto, spostato lentamente i tuoi abitini ripiegati uno sull’altro finché ha trovato quello bianco. Intanto ti parlava, perché non ci credeva che te ne eri andata sul serio, perché già iniziava a sentirsi solo. “Adesso prendo il tuo abitino bianco Sofia –diceva-, poi io e la mamma torniamo subito a portartelo”, come fossi stata tu a rischiare di sentirti sola.
Una per una, con calma rituale, abbiamo scelto tutte quante le piccole cose che ti avrebbero accompagnata nel tuo ultimo viaggio. Le forcine con gli strass a forma di fiore, la spazzola con le fragole per pettinarti, la bambolina Mary e il libro di Giulio Coniglio con le patacche di marmellata a forma delle tue ditina. Perché quando uno muore si deve fare anche questo, avere presenza di spirito per scegliere con cura ogni dettaglio. Ed è stata questa l’ultima coccola che ti abbiamo offerto, mentre in ospedale il cardiogramma conclamava che eri morta per davvero “È la prassi –avevano detto le infermiere- dopo che uno muore si tiene attaccato all’elettrocardiogramma per venti minuti”, come se non si vedesse quando uno è morto. Noi genitori l’avevamo visto subito, era stato come assistere al passaggio di un alito di vento che spirando si porta via l’anima. Un soffio appena percettibile, e in un istante solo avevi perso il colorito e la vita. Senza drammi né sofferenza. E noi genitori eravamo rimasti lì, a guardare, stretti stretti uno con l’altro e tu nel mezzo, accompagnandoti fino a dove ci è stato consentito.

 

Firenze, cimitero delle Porte Sante: Il tributo floreale sulla tomba di Sofia, all’indomani dei funerali

La mamma nei giorni a seguire avrebbe detto “Non so neanche dove è andata la mia Sofia. Non ho potuto verificare prima che tutto fosse in ordine per accoglierla. Come faccio a sapere che anche senza di noi avrà tutto quello che le serve…” Il babbo avrebbe accennato un sorriso e risposto che dove stai adesso non avresti mai più avuto bisogno di nulla.
I primi giorni del dopo di te sono stati surreali. Avevamo paura… della solitudine, di entrare nella tua stanza, di piangere o di non farlo abbastanza, di svegliarsi di soprassalto nella notte ricordandoci la corsa in ambulanza, il medico con l’Ambu, il letto del pronto soccorso con te distesa sopra, l’altro medico con l’espressione seria “Non ci sono atti respiratori”. La mamma ripeteva come un mantra “Non vogliamo accanimenti, se vuole andare lasciatela andare”, i vestiti tagliati via con le forbici, il babbo seduto in un angolo su un poggiapiedi del pronto soccorso, con la testa tra le mani, perché a lui quel momento non sembrava vero, a avrebbe voluto riportarti a casa con sé, subito non importa come, poi ci avrebbe pensato lui ogni notte a combattere le tue convulsioni e tutto il resto che ti stava uccidendo, non dovevi preoccuparti, bastava solo tu riprendessi a respirare da sola, solo questo…Ma no.
Alla fine è stato il babbo quello più forte. Forse non sul momento, lì per lì sembrava che la mamma desse voce risoluta ai pensieri che per sette lunghi anni di malattia avevamo pienamente condiviso: non ci accaniremo, immaginando l’ultimo momento insieme, senza comunque mai poter minimamente prevedere il coraggio che la circostanza avrebbe richiesto. Però poi, una volta passato, quando il sipario della morte è calato a separare il prima e il dopo della nostra vita, la mamma si abbattuta sulla seggiola della rianimazione, sgonfiata delle forze come un palloncino dell’aria, per rilasciare finalmente tutta quanta la tensione. Eri andata e adesso poteva smettere di avere coraggio. La missione era conclusa, la promessa mantenuta, eri andata quando avevi voluto andare.

 

i genitori Guido, Caterina con la piccola Sofia, nel giorno della sua Prima Comunione

Per il babbo invece, la promessa doveva ancora essere fatta. Nei giorni che seguirono il tuo funerale, passava le giornate adorandoti, parlandoti, promettendoti Farò tutto quello che vorrai. Diceva cose come “Dammi la forza, indicami la strada, smorza i miei limiti per essere capace di onorarti”, perché la sua promessa, adesso lo sapeva, sarebbe stata quella di dimostrare al mondo che la tua sofferenza non è stata inutile, attraverso la missione della Onlus che porta il tuo nome. Ma quel che ancora non sapeva è che per contentarti occorreva un progetto grande, così grande da portare la speranza nella terra della disperazione, e la vita in quella della morte. Fino a che l’occasione è arrivata: la Campagna di crowdfunding “Gocce di Speranza” porta con sé la possibilità di salvare realmente vite umane, di offrire concretamente una vita normale a bambini destinati solo alla neuro degenerazione e alla morte, come sei stata tu.
450.000 euro sono un obiettivo incredibile per un’associazione piccola come la tua, Sofia. Ma sta’ sicura che babbo, mamma e tutti i tuoi Amici hanno tenacia sufficiente per raggiungerlo. E quando per la prima volta nella storia della Leucodistrofia Metacromatica un bambino primogenito potrà finalmente curarsi, allora alzeremo gli occhi al cielo e ti vedremo sorridere.

 

Buona luce eterna amore nostro, Mamma e Babbo

 

Iscriviti alla nostra Newsletter!