Il momento sconvolgente in cui il medico comunica ai genitori la diagnosi di “malattia rara ad esito infausto”, irrompe e destabilizza la vita familiare generando angoscia, sconforto, rabbia, ansia, incertezza. Come la costa devastata da uno tsunami, così sogni, progetti e speranze vengono in un attimo drammaticamente spazzati via, tanto più se il bambino non ha manifestato immediatamente i primi sintomi dell’insorgere della patologia.
Trattandosi di malattie rare, per cui non esistono cure e non si conoscono con precisione né implicazioni né il decorso, a rendere più gravosa la situazione dei genitori, è il sopraggiungere di quel devastante senso di solitudine e vulnerabilità, contro cui Voa Voa Onlus! ogni giorno combatte e vince. Ci si aspetterebbe dunque da parte dei dottori, al momento della diagnosi, molta delicatezza ed empatia. Nella realtà però, le famiglie hanno sofferto anche per la freddezza, il molto distacco e il poco tatto usati nell’introdurli ad una nuova ‘vita’, quella con un bambino disabile. E a Finestra Voa Voa! hanno deciso di affidare i loro dolorosi ricordi, nella speranza che ad altri genitori, la comunicazione di ogni diagnosi, avvenga nel pieno rispetto dei sentimenti e del delicato momento psicologico.
La diagnosi di Sofia
“L’argomento è doloroso, ma personalmente non mi stancherò mai di gridare al mondo lo squallore che abbiamo attraversato il giorno in cui abbiamo ricevuto la diagnosi per la nostra bambina
– spiega la Mamma di Sofia -. Fino a un anno e mezzo la bambina aveva avuto uno sviluppo normale. Facciamo il secondo richiamo dell’esavalente e a Sofia viene una febbre anomala, 38 gradi che vanno e vengono nel corso della giornata. Siamo a fine febbraio 2011. Dopo un paio di giorni comincia a zoppicare. Lì per lì e pensiamo si sia fatta male al piedino destro. Passano i giorni e invece di migliorare peggiora, il piedino diventa valgo e Sofia inizia a trascinarlo. La pediatra di allora ci dice di portarla dall’ortopedico. Fissiamo un appuntamento da uno specialista privato per fare più presto possibile. La visita dà esito negativo a problematiche di tipo ortopedico. Passano i giorni, le prime settimane, Sofia comincia a perdere l’equilibrio e a trascinare la gambina destra in maniera sempre più smaccata, mentre noi continuiamo a insistere con la pediatra perché ci aiuti a risolvere il problema.
Sofia viene rivalutata per la terza volta, e solo in questa occasione la pediatra si allarma, vedendo che quando cammina perde continuamente l’equilibrio. Ci suggerisce di fissare una visita dal dottor Rapisardi all’ospedale Santissima Annunziata di Ponte a Niccheri, che la visita e ci dice: “La bambina, è vero, perde l’equilibrio, ma nel cadere ha l’istinto di parare la caduta con le mani, per cui non può essere tanto grave. Aspettiamo un paio di mesi e vediamo”. Ma dopo due settimane le situazione degenera ulteriormente. Fissiamo per conto nostro una visita alla reumatologia del Meyer, con il professor Cimaz, ma il problema di Sofia non risulta essere neppure reumatologico. Intanto la bambina ha sempre più difficoltà a camminare e mantenersi in equilibrio seduta.
Questa fotografia è stata scattata da Guido nella nostra vecchia casa. Risale ai giorni in cui Sofia stava facendo i primi accertamenti ospedalieri. Il piedino sinistro è tirato in punta e già mostrava la posizione equina che di lì a breve si sarebbe strutturata.
Torniamo dalla pediatra che stavolta si spaventa sul serio e richiama Rapisardi di persona, davanti a noi. Ci fissa un nuovo incontro e ci dice: “Sì, in effetti la bambina è peggiorata, per cui è meglio portarla a far vedere alla Neurologia del Meyer”. Siamo terrorizzati e sconvolti, Sofia la notte non dorme più neanche un’ora, e piange spesso indicando i piedini e dicendo “bua dui!” che significa “mi fanno male tutti e due”. Uno strazio per me e per Guido. Inoltre la bambina è frustrata per le cose che non riesce più a fare. Ai giardini vede gli amichetti di sempre che si arrampicano ovunque e corrono. Lei non può più.
Il Meyer ci chiama per un breve ricovero per accertamenti, e allora io realizzo per la prima volta che Sofia ha un problema grave. Sprofondo in un dolore da cui non sarei uscita mai più. Il primo ricovero in Neurologia al Meyer non sarà breve come promesso, ma durerà 8 giorni, interminabili e sconvolgenti dai quali Sofia esce spaventata, e soprattutto molto peggiorata. Le vengono fatti numerosissimi prelievi, anche cinque al giorno di 6-9 fiale di sangue. Elettroencefalogramma, potenziali evocati visivi e uditivi, risonanza magnetica, elettrocardiogramma e visite specialistiche di tutti i tipi. Ma neanche questo primo ricovero ci dà la soluzione.
Torniamo a casa in attesa di notizie. Passa altro tempo, indefinito e lunghissimo durante il quale Sofia perde ogni giorno un pezzo di se stessa. La fisioterapia del Meyer mi aveva raccomandato tanto movimento per la piccola, per non farle perdere tono muscolare. Perciò, per stimolarla, la porto ogni giorno ai giardini, diversi dai soliti per non farla soffrire nel vedere i vecchi amici che corrono e fanno cose per lei oramai impossibili. Ma i nuovi giardini sono una pugnalata per me: Sofia non riesce a fare più nessun movimento, a stento si regge in piedi, e quando la metto sullo scivolo, non avendo equilibrio neanche da seduta, crolla abbattuta su un fianco. E se va in altalena devo reggerla, perché non ha la forza di tenersi a lungo con le manine. Intanto ci chiama il Meyer per il secondo ricovero, altri 8 giorni. Oramai siamo a inizio luglio e il copione è lo stesso del precedente. Prelievi infiniti più volte al giorno, terrore e pianti di Sofia, tutti gli esami strumentali ripetuti daccapo.
Una mattina la dottoressa D. mi dice che Sofia deve fare un piccolissimo prelievo della cute. Le spruzza uno spray anestetico sul braccino “così non sente male” poi prende la bambina in collo e la porta in una stanza con altri 3 medici. “Voglio venire anche io!!” dico, ma mi risponde:
“No signora preferiamo di no, stia tranquilla, ci siamo noi”, e chiude rapidamente la porta. Dopo appena due minuti sento un urlo come non ne ho mai sentiti in vita mia. È Sofia. Apro la porta di scatto e la trovo mentre in tre la tengono ferma e applicano un cerotto. “Che succede qui?” chiedo. “Tutto a posto signora, abbiamo prelevato un frammento di cute per la biopsia” mi rispondono.
Sofia ha gli occhi sgranati e grida per il terrore. Io ho la gola strozzata e comincio a piangere. Non mi sarei perdonata mai più nella vita quella maledetta debolezza di aver avuto fiducia di un dottore. Per sette giorni, alla stessa ora del mattino in cui le avevano fatto il prelievo, Sofia piange e grida ricordando il dolore gratuito e improvviso. Solo molto tempo dopo ho scoperto che per lo spray anestetizzante occorrono almeno 20 minuti per agire, ma nonne erano trascorsi nemmeno 15. Torniamo a casa distrutti e sfiduciati, in attesa di notizie. Chiamiamo spesso l’ospedale nelle settimane successive per avere il verdetto.
Solo il 26 luglio veniamo convocati per la diagnosi. Ci fanno aspettare due ore e mezzo rispetto all’orario indicato. Siamo già stanchi e arrabbiati. Sofia è a casa coi nonni. Entriamo nella sala colloqui del Meyer. Il plotone dei medici capitanati dal capo della Neurologia, professor G. è schierato davanti a noi, pronto per l’esecuzione. C’era Melani della Neurologia, altri che non ricordo e, soprattutto, la dottoressa P. dei Metabolici al posto della D., che quel giorno era assente.
“Vostra figlia è affetta da Leucodistrofia Metacromatica, una patologia neuro degenerativa senza cura farmacologica. L’unica terapia, di tipo genico, l’ha messa a punto il San Raffaele di Milano, cui abbiamo scritto per proporre il vostro caso. Ma dubito accetteranno perché Sofia è già sintomatica”. A questo punto chiediamo al Professor G. quali sono le conseguenze della malattia. Risponde la Procopio, con tutta l’umanità e sensibilità di Scilla e Cariddi: “Prima perderà tutte le funzioni motorie, poi quelle cognitive”. Sto per svenire. Guido mi stringe una mano come a dire resisti, ma è più trafitto di me. “Morirà?” chiedo con un filo di voce. Procopio: “Si, in pochi anni”.
Io e Guido cerchiamo entrambi di non svenire. Allora G. aggiunge, come non bastasse: “È sempre difficile dare diagnosi come questa, anche per noi medici. Ma non dovete preoccuparvi, la vostra vita di coppia non è finita, esiste l’analisi prenatale”. Come a dire: questo Giglio, che amate più della vita vostra, che è a casa ignaro di tutto, a giocare coi nonni pure loro ignari di tutto, è come già morto. Pensate al prossimo. Non ho altro da aggiungere.
Ho odiato il Meyer e tutti i medici che ne fanno parte per moltissimi anni, per colpa del modo animalesco e incivile con cui ci hanno comunicato la fine della nostra vita. Senza compassione, senza umanità.
Poi ho imparato a tornare in quei luoghi e a mettere da parte sentimenti distruttivi quando a Voa Voa Onlus si è presentata l’occasione di finanziare il progetto di ricerca Leucodistrofie, cui alcuni bimbi affetti da Mld presenti in chat hanno partecipato. Ma il ricordo di quel giorno resta immobile nella memoria, come momento di rara crudeltà a cui niente e nessuno potrà porre rimedio.
Come minimo ai medici andrebbe imposto un corso di psicologia per la comunicazione della diagnosi grave alle famiglie”.
La diagnosi di Gabriele
Ricevere la diagnosi di una malattia rara, spinge inevitabilmente i genitori a mettersi alla ricerca di qualsiasi informazione possa rivelarsi utile per alleviare le sofferenze del proprio bambino nel decorso della malattia. Nel caso però della patologia di Gabriele, affetto da sindrome assimilabile alla Klinefertel, non esisteva letteratura medica.
“Alla nascita Lele presentava alcuni problemi – ricorda la Mamma di Gabriele – ma non tali da far pensare a un bambino con disabilità grave.
Le settimane trascorrevano in Tin a Lucca e dopo vari accertamenti, su mia insistenza, gli fecero il cariotipo. La diagnosi di Polisomia xxxxy49 mi venne comunicata dal Primario di pediatria di Lucca, dottor Domenici, con estrema delicatezza. Un pediatra capace di calmare i neonati che piangono solo toccandoli. Ero sola, e lui portò la moglie con sé, pediatra di a sua volta. Però non essendoci letteratura sulla Polisomia a livello internazionale, non seppe dirmi molto. Ci tengo molto a dire che mi fece intendere che fosse una cosa seria, ma lo fece con una delicatezza che non ho più riscontrato in altre persone.
Appena appresa la diagnosi provai un dolore straziante. Su internet trovai, scritta in inglese, tutta la verità sulla patologia, e da lì caddi nella disperazione più nera, pesante come un masso che non mi sono più scrollata di dosso. Un dolore bruciante, una disperazione immensa, e poi il nulla. Nessuno che avesse la stessa malattia di Lele. Non c’era un codice di esenzione, nessuna letteratura italiana, nessuna associazione, nessun medico a livello nazionale. Il Nulla intorno a noi. Così mi misi alla ricerca di altre mamme che vivevano la mia stessa situazione: una era di Las Palmas, una a Chicago, un papà a Beirut.
Lanciai poi la favola di Lulù in rete, quando dopo anni riuscii a dare una voce alla mia disperazione, e così piano piano ho trovato alcune famiglie italiane. Ci siamo conosciute a Roma nel 2013 quando un bravissimo professore dell’Umberto I, il professor Radicioni decise di dare seguito ad una mai mail nella quale chiedevo almeno una rivalutazione clinica, affinchè anche in Italia si sapesse che la Polisomia xxxxy 49 non ha nulla a che vedere con la sindrome di Klinefelter, se non il medico che la scoprì.
Finalmente – spiega la Mamma di Gabriele – grazie proprio al professor Radicioni, quest’anno è uscito un testo in letteratura italiana. Credo di essere l’unica mamma, tra un milione di mamme, ad essere venuta a conoscenza della patologia di Lele con tatto e dolcezza. Per tutte le altre diagnosi che abbiamo avuto (tratti autistici, schisi sottomucosa, regressione delle capacità motorie agli arti superiori) avrebbero invece potuto essere più delicati.
Ma tanto io ero già morta dentro alla nascita, quando ho intuito che la sua era una cosa seria. Il dolore mi ha ottenebrata, piombandomi con una cappa pesante di dolore che non sono mai riuscita a scrollarmi di dosso.
Mi sono sentita dilaniare, lacerare, senza che nessuno riuscisse mai a ricompormi. Mi sono chiusa al mondo.
Non ho corazze resistenti come molte di voi. Cerco solo di sopravvivere nonostante tutto. Ma non mi sento mai a mio agio. Mi sento sempre fuori luogo”.
Errori e orrori diagnostici…
Anche il percorso verso la diagnosi della piccola Federica, affetta da Leucodistrofia, non è stato affatto semplice.
La Mamma di Federica era già stata madre di una bambina affetta da Leucodistrofia Metacromatica, Rosa, purtroppo scomparsa anni prima. Quando Luisa è rimasta incinta di Federica fu eseguita una villocentesi per accertarsi che anche Federica non fosse malata. Malgrado l’esito dell’esame diagnostico fosse risultato negativo e avesse consentito di continuare la gravidanza, mesi dopo la nascita Federica ha cominciato a manifestare gli stessi sintomi di Rosa e a ripiombare nell’incubo, malgrado le precauzioni adottate, di un secondo caso di Leucodistrofia Metacromatica in famiglia I Genitori da allora sono in causa con l’ospedale Gaslini di Genova dove è stata effettuata la diagnosi prenatale.
“La prima volta non capivo nulla di cosa stesse accadendo, perché la piccola era apparentemente sana, manifestava solo pochi segnali che notavo solo io. Neanche i medici avevano intuito si trattasse di qualcosa di grave – ricorda la Mamma di Federica – E così curavano Federica per lo strabismo, per il piede torto. Solo quando i segnali furono evidenti a tutti, si cominciò l’indagine genetica, e dopo 6 mesi abbiamo avuto la diagnosi. Fu una vera coltellata al cuore. Avevano sbagliato la villocentesi”. Anche la strada che porta ad un possibile risarcimento da parte dell’ospedale per via di questo errore è molto lunga.
“Sono passati 5 anni e ancora non c’è stata nessuna udienza, sono lentissimi nel civile”. Stessa situazione per
la Mamma di Sara, affetta da sindrome di Rett:
“Noi siamo in causa col Meyer dal 2012, e la prima udienza c’è stata a giugno”.
La diagnosi di Leonardo
Un altro dolorosissimo ricordo dovuto alla scarsa delicatezza nel momento della comunicazione della diagnosi, è quello vissuto dalla Mamma di Leonardo.
“Il nostro percorso verso la diagnosi è stato complicato perché con le tecniche utilizzate in Italia, al Gaslini, Leo non avrebbe la Leucodistrofia di Krabbe. Fino ai sei, sette mesi Leo (nella foto) è stato bene, prendeva peso, seguiva con lo sguardo, stava seduto tenendo il capo dritto – ricorda la Mamma di Leonardo – e soprattutto sorrideva sempre, quando papà lo faceva giocare, ma anche appena sveglio al mattino. Quei sorrisi mi commuovevano perché, nonostante il periodo in ospedale per essere nato tanto prematuro, lui era allegro, stava bene. A quel punto sono iniziati i pianti inconsolabili, il non voler più mangiare e la perdita di peso. La pediatra di allora mi diceva che era reflusso, ma le medicine non facevano niente. Da qui il primo ricovero al Regina Margherita durato tre mesi, in cui hanno messo il sondino nasogastrico per nutrirlo, mentre io continuavo a dargli l’omogeneizzato alla frutta che lui adorava.
Nel frattempo la risonanza ci diede la presunta diagnosi di Krabbe e i medici, senza spiegarmi di cosa si trattasse, mi consigliarono la Peg. Non so dire se fu per la mia inesperienza, o se probabilmente vivevo nel mondo delle favole, ma feci molta fatica ad accettare l’idea che Leo non potesse più mangiare se non attraverso la sonda. La dottoressa che ci seguiva mi ha tolto tutti i dubbi, e un giorno, quasi irritata, ci disse: “Signori, forse non vi rendete conto della gravità della situazione. Vostro figlio non supera l’anno di età”. Allora Leo aveva 10 mesi, e a scriverlo tremo ancora adesso. Ho odiato quella dottoressa perché, anche se io forse vivevo nel mondo delle favole e non mi rendevo conto della situazione, ci sono modi e modi per dire queste cose. I medici dovrebbero fare all’università anche un corso di umanità. Comunque, da quel momento ci siamo informati sulla malattia che, tra parentesi, era ancora da confermare, e lì è crollato tutto. La conferma l’abbiamo poi avuta quasi un anno dopo dagli Stati Uniti”.
La diagnosi di Matilde
Anche la diagnosi della piccola Matilde, affetta da variante sindrome di Rett, e Natale, affetto da Leucodistrofia Metacromatica, così come quella della piccola Rossana sono arrivate dopo un lungo, faticoso e doloroso percorso.
“Per Matilde la diagnosi è arrivata molto tardi, quando aveva già 13 anni, e fu un calvario per scoprirla. Per cercare di capire cosa avesse la nostra cucciola, suo babbo scrisse a medici, partecipò a convegni in tutt’Italia, da Perugia a Siena, da Napoli a Milano a Pavia, ma non servì a niente. Anche le varie torture che ha subito la piccola – spiega la Mamma di Matilde – come la biopsia muscolare, ben tre rachicentesi (prelievo di liquido cefalorachidiano nel midollo) e i vari prelievi di sangue, non portarono a nulla. In noi, ovviamente, cresceva sempre più la frustrazione di non sapere cosa avesse la bambina. Le prime convulsioni sono arrivate venti giorni dopo il vaccino, e non trovando risposte, cresceva in noi la convinzione che la causa potesse essere stata proprio la vaccinazione. Abbiamo girato parecchio, da Genova a Pavia a Verona a Milano, abbiamo fatto test anche in America. Scrivemmo anche a Telethon, ma non ci considerarono neanche. Quando Matilde era ricoverata ad Alessandria, nel 2012, dove non capirono che era in stato di male epilettico e mi dissero che sarebbe morta di lì a poco, ho avuto la forza di firmare per portarla via. Era in rianimazione e non riuscivano a estubarla. Piangendo, ho chiesto un’ambulanza che la trasferisse a Verona, dove sono riusciti a farla riprendere. Ho fatto tutto da sola perché Claudio, mio marito, era morto da cinque giorni. Stavo iniziando a rassegnarmi quando, a giugno del 2014, arriva una mail dall’Istituto Auxologico Italiano di Milano, che m’informa della mutazione al gene SCN8A, per cui ad oggi non esiste una cura, ma si possono solo attenuare i sintomi dell’epilessia”.
La diagnosi di Natale
“Quanto dolore, pensando al momento della diagnosi – ricorda la Mamma di Natale -. Desideravo un bambino più di ogni cosa al mondo. Ho avuto una gravidanza perfetta, ma il parto fu difficile e alle fine feci il cesareo. Natale cresceva perfettamente e l’ho sempre allattato al seno, fino a quando non perse la capacità di deglutire, cosa che avvenne poco dopo la diagnosi.
Non aveva nulla che non andava, a parte un ritardo motorio di cui il pediatra mi disse di non preoccuparmi, dal momento che ogni bimbo ha i suoi tempi. Ma io, non convinta, lo portai a visita da un fisiatra privato, ma anche lui non riscontrò in Natale nessuna stranezza a parte il ritardo motorio. Mi prescrisse solo dei plantari che avremmo collaudato al prossimo controllo, ma Natale dopo due mesi non aveva più il controllo del tronco. Nel frattempo avevamo cominciato fisioterapia con la Asl perché lui zoppicava, fino a quando gli si sono completamente bloccati gli arti inferiori, e da lì siamo subito stati mandati a fare una risonanza d’urgenza per sospetto tumore. Già a Rimini mi parlarono di Leucodistrofia Metacromatica o di Krabbe, ma non potevano confermarlo. Allora approdammo al San Raffaele, dove le dottoresse non furono affatto carine nel darci la tremenda notizia. Ricordo solo le lacrime di dolore che scendevano dagli occhi miei e di mio marito quando ci dissero che aveva pochi anni di vita. Oggi Natale rimane, nel caso della sua patologia, la Leucodistrofia Metacromatica, l’unico bimbo malato nonostante un solo portatore sano. In seguito ho fatto rifare gli esami sia al Besta che al Gaslini, ma entrambi hanno confermato la diagnosi del San Raffaele. Da allora viviamo ogni giorno come fosse l’ultimo, godendoci ogni attimo con il nostro angioletto”.
La diagnosi di Rossana
“Rossana, in persiano Raushana, significa Splendente, luminosa, rilucente o anche piccola stella luminosa. Mai nome più profetico! Cercavamo un bimbo è vero, ma senza smanie. Avevo appena iniziato un corso che mi avrebbe fatto diventare infermiera volontaria della Croce Rossa ed ero al settimo cielo- ricorda la Mamma di Rossana – ma sentivo che per l’ennesima volta stavo cercando di realizzare solo me stessa, piuttosto che Noi come coppia. L’ho detto a Massimo e…l’ho chiamata. Lo dico perché, facendo i calcoli a posteriori, sono rimasta incinta cinque giorni dopo. Il mondo per me si é ribaltato: oramai lo guardavo attraverso degli occhiali con lenti rosa. Rossanina é nata l’8 ottobre 2013 alle 9.55, dopo una gravidanza da favola ed un parto di 8 ore e 5 minuti in cui abbiamo fatto quasi tutto da sole. Dopo 10 giorni aveva già degli orari e la notte dormiva nel suo lettino vicino a noi 5 o 6 ore di fila. È cresciuta bene e serena fino ai 3 mesi e 15 giorni. Reputo i primi 3 mesi di vita il quarto trimestre di gravidanza, quello che serve per conoscersi e capirsi, e così é stato. Dal 15 gennaio al 27 ha avuto tre giornate bruttissime con pianto ‘inconsolabile’. Inconsolabile?? Questo è un termine che odio, perché vorrei vedere voi, cari dottori, in ipertono per ore e ore, con neuropatia periferica a mille, pianti fino a diventare fucsia, e relative apnee che la facevano diventare blu, se non gridereste come degli ossessi! Stranita da queste 3 giornate la porto dal pediatra, che dopo una visita lunga ed estenuante per la cucciola, si è immediatamente allarmato dell’ipertono e dei pugnetti chiusi. Ci mandò a casa facendole prendere del Ranidil, per l’evidente reflusso, e ci organizzò per l’indomani tutto un giro di visite ed esami da fare ad Imperia, perché noi viviamo a Bordighera. Il mattino dopo alle 7, si presenta il pediatra a casa e ci dice: “Ci ho pensato ed è meglio che andiate direttamente al Gaslini. L’ho già contattato e vi aspettano in Pronto Soccorso”. Era il 28 gennaio 2013.
Chi è stato al Gaslini sa benissimo che per quanto sia un ospedale vecchio e non ‘bello’ da vedere, sia super efficiente, all’avanguardia e con personale molto gentile e amorevole: questo in generale. Poi però ci sono anche dei ‘personaggi’, come la Dottoressa Di R. di Pediatria 2 blocco 1 Malattie Metaboliche, che ora mi sembra sia stata trasferita in ambulatorio.
Dall’osservazione d’urgenza ci avevano trasferiti da mezz’ora in quel reparto, ed aspettavamo che arrivasse qualcuno a dirci il risultato finale dei mille esami, prelievi di sangue, visite e controvisite, pesate prima e dopo ogni poppata e ad ogni cambio di pannolino. Abbiamo vissuto tutte la stessa odissea, difficile da raccontare, quasi umanamente impossibile da vivere, per ciò che abbiamo visto fare ai nostri cuccioli. Allora eravamo ancora troppo intimidite e stranite per reagire, almeno io.
Alle 13.10 del 31 gennaio 2013, ci apre la porta la Dottoressa: entra lei insieme ad un ‘plotone’ di dottorini al suo seguito, che si schiera in due file vicino alla porta, come in quel film di Alberto Sordi, ‘Il medico della mutua’ o qualcosa del genere. E a quel punto la Dottoressa inizia a parlare a noi, guardandoci in faccia, ma spiegando a loro la ‘lezione’. “Buongiorno – ci disse -. A seguito di tutto l’iter diagnostico fatto da…e da e da ……si è riscontrato: materia grigia….bianca…. ecc.. Anomalie riscontrate dalla risonanza che non lasciano molti dubbi…..esito Infausto…..”.
A quella parola, un flash: ‘infausto’ cioè morte? Sì, mi sono detta. E da lì in poi fu solo un’accozzaglia di parole. Cercavo di fissare più parole possibili nella mente, così che avremmo cercato di capirci noi qualcosa, quando tutti se ne fossero andati. La Dottoressa ci lasciò dicendoci che il nome della patologia di Rossana, avrebbe potuto dircelo solo dopo la biopsia cutanea, che avrebbero fatto il lunedì. Ovviamente noi abbiamo trascorso il weekend su internet a studiare le malattie che raggruppavano le informazioni ricevute. Evito di raccontare come la Dottoressa ha eseguito quell’esame sulla nostra Rossana. Dico solo che prima della biopsia, risottolineando la gravità della situazione, se ne uscì dicendo: “Sospettiamo sia il morbo di Krabbe. Non ve lo avevo detto?”. Penso di non aver mai guardato negli occhi con tanto odio e disprezzo una persona come in quel momento. Ma tenevo Rossana da un lato, per farle fare la biopsia, e non potevo ‘stringere’ nulla come reazione….Ho solo guardato Massimo e gli ho detto: “Purtroppo avevo ragione io: alla nostra piccola è toccata la più veloce”.
Dopo l’esame la Dottoressa ci ha rispiegato tutto con la stessa freddezza e durezza della prima volta, ma dilungandosi di più sulla possibilità di avere, e anche molto presto, altra prole. Dato che la nostra bambina sarebbe morta molto presto: “A giorni vi mando a casa e lì aspetterete che muoia, supportati dal vostro pediatra, che so essere bravissimo!”.
Il pensiero che alla nostra piccola fosse toccata, tra tutte, proprio la malattia più ‘veloce’, non mi ha dato pace fino all’incontro con la Dottoressa Imma Florio. Che mi ha fatto capire come non fosse importante la ‘quantità’ di tempo che la malattia concede ai nostri bambini, ma la ‘qualità’. Ma questa é un’altra ‘storia’ ”.
Come spiega la Mamma di Sofia: “Sono contenta che grazie a questo articolo in tanti potranno almeno intuire cosa si prova a ricevere notizie come quelle che abbiamo ricevuto noi Famiglie con bimbi rari”. L’auspicio, oltre a quello di sensibilizzare la categoria dei medici sull’impatto devastante di una simile, delicatissima, comunicazione alle famiglie, è che si proceda all’avvio di un percorso di gestione psicologica del trauma in contemporanea con la diagnosi. È a questo scopo che Voa Voa! Onlus, all’interno della sua équipe, dispone di due psicologi che offrono assistenza alle famiglie associate su richiesta.
E sempre sul tema ‘diagnosi’, il prossimo appuntamento di Finestra Voa Voa! raccoglierà le testimonianze di altre mamme che hanno vissuto situazioni, per certi versi, ancor più traumatiche e cariche di sofferenza. Quando l’iter diagnostico, già di per sé lungo, estenuante e doloroso, non si conclude con l’individuazione precisa di una determinata malattia rara. Ma in molti casi si trasforma in una ricerca eterna…
Grazie a tutti per l’attenzione!
La Redazione di “Finestra su Casa Voa Voa” ringrazia le Mamme e i Papà, membri della chat, per la preziosa collaborazione.
Barbara
Caterina
Guido
Maurizio
Voa Voa!