Quando una famiglia si sente rara e invisibile.

- Guido De Barros

Raro e invisibile… in questo numero di Finestra su Casa Voa Voa, le mamme e i papà speciali della nostra Onlus rispondono a un quesito importante: “Quando, nella vostra vita di caregiver, vi siete sentiti rari e invisibili?

Ne sono scaturite riflessioni intense, su cui tutti quanti siamo chiamati a porre la massima attenzione, consapevoli del fatto che le parole di questi genitori rispecchiano una realtà difficilmente comprensibile al mondo esterno.

Dalla condizione di “rarità” dovuta alla scarsa frequenza di una patologia sulla popolazione, scaturiscono, oltre ai danni quasi sempre gravissimi della malattia, anche gli effetti altrettanto nefasti provocati dall’indifferenza della società civile e delle istituzioni socio sanitarie, che causano nella famiglia “caregiver” la desolante consapevolezza di sentirsi “invisibili”.

Per queste ragioni ci impegnamo, attraverso gli articoli di Finestra su Casa Voa Voa ed altre campagne di sensibilizzazione recanti il sempre più diffuso hashtag #rarinoninvisibili, da noi coniato, a dissociare la condizione statistica di rarità da quella di abbandono e invisibilità.

 

 


 

 

«Ho sentito che mia figlia era diventata invisibile davanti al mondo commenta la mamma di Sofia (Leucodistrofia Metacromatica), un giorno in cui l’avevo portata ai giardini, come spesso facevo per farla stare insieme agli altri bambini. Sofia zoppicava ormai vistosamente ma non avevamo ancora diagnosi. La mamma di una bambina normodotata richiamò sua figlia che si era avvicinata per giocare con Sofia, dicendole espressamente “Tesoro, lascia stare quella bimba, lo vedi che non sta bene? Vai a giocare un po’ più in là”. Sofia, che adorava stare vicino agli altri bambini, rimase a guardarla mentre si allontanava, senza poterle correre dietro e, amareggiata, smise di giocare, allungò le braccia perché la prendessi in collo e indicò la mia bicicletta parcheggiata al bordo del giardino come a dire “Mamma voglio andare a casa”.

“Invece –continua la mamma di Sofia- mi sono sentita per la prima volta sola davanti alle istituzioni sanitarie quando, pochi minuti dopo averci comunicato la diagnosi di malattia terminale neuro degenerativa, il primario di neurologia dell’ospedale Meyer di Firenze si rivolse a me e a Guido suggerendo “Non preoccupatevi, la vostra vita di coppia non è finita perché esiste l’indagine prenatale”, come a dire “la primo genita è spacciata, vi consiglio di pensare al prossimo”».

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Dunque la paura della diversità da parte della società normodotata è uno dei fattori di isolamento delle famiglie speciali, quando si nota che il mondo intorno al proprio bimbo conduce un’esistenza parallela, di cui diventa impossibile fare parte. Capita ogni volta che si traccia una linea netta a separare i sani dai malati. Anche il cinismo, il pragmatismo spicciolo ed estremo cui spesso si riducono i medici curanti dei nostri bambini, offende e demoralizza i genitori caregiver, che per istinto di protezione iniziano a repellere la categoria per evitare ulteriori lesioni alla propria emotività, già infragilita dalle circostanze.


 

Oppure ancora quando i medici rinunciano anche solo a tentare un protocollo riabilitativo o di mantenimento delle competenze del bambino, poiché affetto da patologia inguaribile «Eravamo in attesa del primo ricovero diagnosticoracconta la mamma di Benedetta (sospetta encefalomiopatia mitocondriale) -, intanto avevamo già iniziato la serie interminabile di visite sui sintomi che Benedetta manifestava. Nello specifico ricordo quella di controllo dall’oculista, perché da qualche mese con la piccola eseguivamo l’occlusione alternata degli occhietti per tamponare lo strabismo. Chiesi all’oculista se ritenesse che dovessimo continuare con la terapia ed eventualmente con quale frequenza. Lui alzò semplicemente le e mi rispose “No signora, tanto con questo tipo di bambini qui non vale la pena”».

«Nostro figlio è stato invisibile davanti al mondo una volta in cui eravamo in coda alla cassa di un supermercatoricorda il papà di Mattia (patologia neurodegenerativa idiopatica)-, mia moglie era incinta di sette mesi e Mattia era seduto sul suo sistema posturale. Chiesi alla persona davanti a noi di farci cortesemente passare.  Mi venne risposto “Quelli come voi fanno di tutto per avere agevolazioni”. Io e mia moglie rimanemmo di sale. La volta in cui invece mi sono sentito solo di fronte alle istituzioni è stato quando il primario di neurologia ci comunicò che Mattia non aveva una diagnosi precisa e che sarebbe stato assai difficile anche in futuro poter dare un nome alla sua patologia».


 

 Sono molte le figure professionali che nel corso della vita di un bambino raro entrano a stretto contatto con la famiglia caregiver. Oltre all’equipe ospedaliera preposta, c’è la squadra di assistenza fornita dal Territorio e costituita di base da un neuropsichiatra, un fisioterapista e un’assistente sociale, che seguendo la normativa vigente decidono come intervenire per sopperire ai bisogni e alle emergenze che man mano si presentano da risolvere con l’avanzare della patologia.

«Il primo momento in cui mi sono sentita esclusa dal resto del mondo –sono le parole della mamma di Letizia e Leo (patologia neurodegenerativa idiopatica)- è stato quando mi venne assegnato l’assistente sociale che doveva indicarci come procedere per la disabilità della mia primo genita Letizia, e come ottenere l’invalidità. La mia bambina aveva un anno appena e questa persona usò solo poche parole per liquidarmi. Disse “Non avendo una diagnosi certa, sua figlia non ha diritto a nulla”. Leonardo nacque quando già avevo dovuto ingoiare molti rospi, ma ciononostante mi toccò ripercorrere una strada identica a quella battuta con Letizia, perché ormai lui era già nato con l’etichetta di “fratello di …”. Ricordo che appena venuto al mondo venne portato in terapia neonatale non perché avesse necessità particolari, ma solo per valutazioni interne e raccolta dati da parte dell’ospedale. E per colpa di questo subì molti esami invasivi senza che noi genitori venissimo neanche interpellati. Leonardino era semplicemente la cavia giusta. Oggi sono passati 17 anni e ancora la medicina non ci ha dato alcuna risposta. L’unica conquista che abbiamo ottenuto è che ai miei figli siano stati riconosciuti gli stessi diritti che spettano ai bambini affetti da patologie rare diagnosticate».


 

Nel contesto ospedaliero dunque, è facile che il genitore di un bimbo raro si senta abbandonato e che il piccolo paziente si trasformi in una creatura invisibile. È il meccanismo stesso a indirizzare i bambini senza cura al disinteresse da parte della medicina, che per questioni di ottimizzazione delle risorse umane ed economiche punta tutto sui pazienti cui è possibile offrire possibilità concrete di guarigione. E un bambino condannato non merita neanche il beneficio di un tentativo di tipo palliativo o sperimentale.

«Ho sentito per la prima volta la sensazione che mia figlia fosse diventata invisibile quando la dottoressa Biffi dell’Ospedale San Raffaele di Milanospiega infatti la mamma di Federica (Leucodistrofia Metacromatica)mi disse che non poteva includerla nella cura sperimentale genica perché aveva superato di un mese i due anni di vita, e dunque non rientrava nel protocollo ufficiale che dava diritto di arruolamento al trial».

«Mi sono sentita invisibile in molte occasionicommenta la mamma di Gabriele-, visto che le multi-patologie di Lele non si comprendono né giustificano da un punto di vista medico. La frase più ricorrente che mi sono sentita dire dai dottori che lo hanno visitato nel corso degli anni è stata “Il bimbo non ha nulla, è solo pigro. E se Lei continua ad aiutarlo in tutto, non si applicherà minimamente per imparare da solo!”  Se a dirmi parole simili fossero stati dei conoscenti, forse avrei potuto comprenderli, anche se ne sarei rimasta comunque ferita. Invece a dirmelo sono stati dei medici, e questo non è tollerabile. Infatti, quando a sei anni Lele venne operato di palatoschisi sottomucosa mi domandai con quale coraggio mi avessero parlato di pigrizia. L’abbiamo portato ovunque in Italia, sbandierando una condizione di patologia rara ormai diagnosticata, e nonostante questo ho continuato a sentirmi dire le stesse cose. Non riesco ad immaginare quali possano essere i commenti di un medico quando un piccolo paziente non possiede neanche una diagnosi certa.»


Anche la mamma di Aurora denuncia la condizione di invisibilità di sua figlia, avvalorando l’ipotesi della mamma di Lele sulla condizione ancor più drammatica dei bambini orfani non solo di cure ma anche di diagnosi… «Rara&Invisibile è una condizione che non mi appartiene, e di conseguenza neanche a mia figlia –sono le sue parole-. Aurora non ha diagnosi e fin dall’inizio è stata orfana di cure. Lei non è solo rara, è unica. Nessun medico sa spiegarmi perché con il tempo si sia ridotta così. Apparentemente sembra una tetraparesi spastica con deficit globale, ma Aury soffre anche di epilessia mioclonica (evidenziata solo recentemente dopo 13 anni di elettroencefalogrammi).

Aurora invisibile? Magari lo fosse, invece purtroppo la sua diversità si vede sempre di più, man mano che il tempo la fa degenerare. Sono solo i medici e le istituzioni di competenza ad aver deciso che mia figlia non si deve vedere. Però di tanto in tanto qualcuno che si accorge che lei c’è; sono le persone dotate di sensibilità, quelle che capiscono quanto sia pura e quanto meriterebbe l’attenzione e l’assistenza di chi avrebbe il potere di cambiare le cose. Invece viviamo nella solitudine e nel dolore. Secondo me #rari&invisibili sta a identificare una condizione mentale, una cartina tornasole della società in cui viviamo, che distingue chi crede da chi no, chi vede da chi è cieco…finché tutto si trasforma in un atto politico, umano, sanitario».

«Quando penso alla parola raro mi viene in mente una cosa bella proprio come un diamante e infatti è così che vedo mio figlio –si consola invece la mamma di Natale-. Peccato che agli altri faccia solo pena e compassione. Peccato che per la società sia un peso morale ed economico. Invisibile mi sono sentita il giorno che all’ospedale Gaslini di Genova mi dissero “Quella di suo figlio è una delle forme più gravi di Leucodistrofia”. Invisibile mi sento tutte le volte che devo cateterizzare mio figlio e sono sola contro la stanchezza che piano piano, assistendolo giorno dopo giorno, mi sta usurando inesorabilmente.»

«Sentirsi invisibili non è solo una sensazione ma una realtàconclude la mamma di Rossana, interpretando gli stati d’animo di tutti-. Ci siamo sentiti invisibili nel momento in cui all’ospedale Gaslini ci comunicarono la diagnosi: fino a un’ora prima avevamo diritto a tutta l’attenzione dei medici, dopo che il mostro aveva ricevuto un nome e la catalogazione di “malattia incurabile”, più niente. Neanche passavano una sola volta di notte, quando Rossana piangeva in maniera incessante per ore ed ore e si sentiva solo lei in tutto il reparto. Dato che non c’era cura sembrava che non valesse la pena di fare nulla, neanche lenire le sofferenze. Eravamo ricoverati in uno degli ospedali pediatrici più importanti d’Italia, eppure nostra figlia non veniva considerata minimamente. Eravamo rari per il tipo di patologia, ma tutt’altro che invisibili. E da quel momento in poi non abbiamo più permesso a nessuno di farci sentire così».


Dopo diciotto articoli, la redazione di Finestra su Casa Voa Voa si fermerà per la pausa estiva, ringraziando tutti i lettori che in questi mesi di testimonianza e sensibilizzazione si sono avvicinati alla nostra Causa, e iniziato a conoscere, attraverso le parole degli stessi genitori, la realtà delle famiglie speciali con bambini #rarinoninvisibili.

Grazie a tutti per l’attenzione!

La Redazione di “Finestra su Casa Voa Voa” ringrazia le Mamme e i Papà, membri della chat, per la preziosa collaborazione.

Barbara 

Caterina

Giacomo

Guido 

Maurizio