Matilde e Sofia a Medugorje

- Guido De Barros

Il viaggio della speranza, la nascita di una bellissima amicizia e lo scambio di una promessa.

 

“Quando ci siamo incontrate per la prima volta, io e Caterina ci trovavamo a Medugorje. Ognuna con la propria famiglia, ognuna con il proprio dolore. Soprattutto, ognuna con la propria figlia malata. Per entrambe fu un viaggio della speranza, ma non di quelli che normalmente si fanno verso gli ospedali e che, seppur dall’altra parte del mondo, offrono una possibilità di guarigione. Per le nostre figlie di cure e di guarigione non se ne poteva comunque parlare, dato che erano afflitte da patologie neuro degenerative fortemente invalidanti”.

Così Irene, mamma di Matilde, oggi una bellissima ragazza resa invalida al cento per cento dalla patologia SCN8A, ricorda il primo incontro con me e con Guido, in un periodo delle nostre vite in cui Voa Voa Amici di Sofia aps non era ancora neanche un pensiero.

Irene è una donna minuta, delicata come un fiore, con gli occhi grandi e il viso di una bellezza struggente. Gli eventi della sua vita, difficili da sopportare, le hanno tolto quasi completamente il sorriso.

“Era il 2011 -racconta-. Io e mio marito Claudio avevamo deciso di partire perché la fede nei nostri cuori era tanta. Volevamo affidare alla Madonna le nostre vite, sconquassate dalla malattia di Matilde e dal tumore -rarissimo- che aveva colpito Claudio. Non chiedevo miracoli eclatanti, o la guarigione completa di mia figlia, che al tempo aveva 10 anni. Non mi aspettavo che ai piedi della statua sul Podbrdo Matilde si sarebbe alzata dalla carrozzina, né che avrebbe parlato. Ciò che chiedevo per lei era un miglioramento, perché da sempre il dolore più grande del mio cuore è stato quello di non capire cosa le fa male, quale punto del corpo le dolga, se mia figlia abbia fame o sete. Se solo avessi potuto comprenderla con esattezza, sarei stata una madre più serena. Non mi importava che il destino la tenesse bloccata su una carrozzina, e avrei sopportato anche la vista delle sue crisi epilettiche. Tutto avrei accettato, ma che almeno mi si togliesse dal cuore il dolore di non poterla capire”.

 

Come sarebbe stato possibile, secondo te?

“Confidavo nella scienza, speravo si sarebbe trovato un farmaco capace di produrre nelle bambine come Matilde un piccolo miglioramento”.

 

E per Claudio cosa chiedevi?

“Che potesse curarsi, ma il suo tumore contava solo 7 casi in tutta Italia, era davvero rarissimo. Angiosarcoma, così si chiama, è un tipo di tumore che colpisce il rivestimento delle vene, e siccome non è circoscritto entro un’area specifica dell’organismo, non era curabile”.

 

E per te, Irene, cosa chiedevi?

“Per me chiedevo la fede salda, e la forza di affrontare le giornate della mia vita, una per volta, una dopo l’altra. Perché quando la sofferenza è troppa a volte fai la pazza o ti difendi cercando di non pensare. Allora ti sembra di essere diventata fredda. Invece, semplicemente, è un atteggiamento di difesa, perché quella vita non ti appartene, a nessun essere umano dovrebbe appartenere, ed è come se tu non l’avessi vissuta per davvero. Ci sono giorni in cui mi guardo indietro e mi chiedo come ho fatto a arrivare fino ad oggi”.

 

Cosa ti spaventa di più del futuro?

“Il famoso “dopo di noi”, la certezza che non potrò esserci per sempre per Matilde. Allora mi sento disperata. Però sto lavorando per garantirle la vita cui è abituata, anche quando io non ci sarò più. Ho adattato tutta la casa alla sua disabilità, l’ho trasformata in un ambiente piccolo e funzionale, tutto fatto su misura per lei. Poi ho chiesto al giudice tutelare di permettere a Matilde di continuare a vivere a casa sua, con l’aiuto di una badante magari, ma di non mettere mia figlia in un istituto. So per certo che lì non starebbe bene. Lei ha bisogno di riposare nel suo letto tranquilla, nel silenzio e nella quiete, la confusione la spaventa. Insomma, ha diritto a mantenere le sue abitudini”.

 

E Claudio?

“Claudio non c’è più. Il tumore se l’è portato via tanti anni fa. Ma la sua speranza, la sua fede, la sua forza erano incredibili, persino dinanzi alle grandi croci che ci erano arrivate addosso. Negli ultimi giorni di vita però piangeva, perché sapeva che avrebbe dovuto lasciarci sole. Ma ha comunque voluto regalarci tante parole indimenticabili, che mi hanno permesso di andare avanti e alle quali ancora oggi mi appiglio. Una volta gli dissi che volevo uccidermi, pur andare via con lui. Lui mi guardò e mi rispose “Vai tanto in chiesa, ma poi non rispetti tua figlia”. Era l’uomo più intelligente e aperto che abbia mai conosciuto, non ne esistono altri così. Anche mia madre è stata un punto di forza, ora li ho persi entrambi. Nel periodo in cui i ricoveri con Matilde erano tantissimi, io sentivo di non farcela più. Allora mia madre mi diceva “Irene, è toccato a te. Devi farcela! Ma il problema è che i genitori come noi sono lasciati troppo soli, nessuno se ne occupa, né lo Stato né la società. Siamo un peso per tutti, noi insieme ai nostri figli”.

 

Torniamo a Medugorje. Cosa hai pensato quando ci siamo incontrate per la prima volta?

“Tante sono le emozioni di quei giorni, a ripensarle adesso mi manca il respiro. Però mi ricordo di te come di un’anima in pena. Eri chiusa in te stessa, camminavi avanti e indietro come un fantasma, con gli occhi pieni di pensieri e di tristezza. Avevi i capelli corti, mi sembravi bella. Volevo capire cosa stessi pensando e cosa provassi. Io e te eravamo le uniche mamme con bambini piccoli malati, gli altri erano tutti anziani”.

 

E Guido?

“Lui mi sembrò come Claudio: più razionale in quel momento, con i piedi per terra. Forse gli uomini ragionano in modo diverso da noi e anche se entrambi erano presissimi dalle loro figlie, li vedevo più rassegnati, come se avessero accettato la loro croce. Pensa che all’epoca neanche avevamo una diagnosi per Matilde. Non sapevamo cosa aspettarci. Eppure Claudio era motivato a capire, a cercare. Contattò l’ospedale di Siena, il Gaslini di Genova, il Niguarda di Milano, e molti altri per fare analisi e scoprire più cose possibili sulla patologia ignota di Matilde. Io accudivo la bambina, ma non avevo forza di pensare agli ospedali. Lui invece studiava anche le diete, si faceva spedire i libri dall’America, prendeva in esame ogni aspetto che potesse essere utile e cercava soluzioni. Però, comunque, accettava che Matilde fosse così. Alla fine siamo stati complementari, ognuno ha fatto la sua parte”.

 

Il ricordo più forte dei giorni  a Medugorje?

“Strano a dirsi, ma sei tu. Eri come distaccata dai tuoi e da Guido, stavi sola, non volevi parlare. Eri davanti all’altare grosso, con la testa assorta, non vedevi né sentivi niente intorno. Non dimenticherò mai il tuo andare su e giù con quella bambina tra le braccia. Sofia non teneva più la testa dritta, aveva il collo incassato e i piedini equini. Mi affezionai a voi. E poi c’è il ricordo di quella salita che facemmo insieme per arrivare al Podbrdo, ai piedi di quella Madonna dove tutti abbiamo lasciato un messaggio di speranza. Matilde pesava tanto, e Claudio era debole per colpa della malattia. Allora un gruppo di persone ci aiutò a portare la sedia della bambina fin lassù. Voi Sofia la portaste in braccio perché era ancora piccola, appena due anni”.

 

Invece il mio ricordo più forte è l’abbraccio tra Guido e Claudio, sul sagrato della Chiesa, alla fine di una Santa Messa. Era notte, la luce dei lampioni intorno alla piazza illuminava le loro teste, io era ai piedi della scala e loro in alto, sul sagrato. Quel momento mi sembrò lo scambio di una promessa…

“Durante quel viaggio di appena pochi giorni era già nato un affetto tra di noi, e in quell’abbraccio era vivo e presente. Fu come uno scambio di anime, nel dolore condiviso Guido e Claudio erano diventati fratelli. Se so che una mamma sta passando quello che passo io, d’istinto la abbraccio, perché so cosa prova il suo cuore. Ma forse Claudio stava anche dicendo addio al suo amico, perché sapeva di essere gravemente malato. E comunque, se quello tra di loro è stato lo scambio di una promessa, allora per me Guido l’ha mantenuta, perché il conforto dalla Onlus è stato ed è tanto. Tu mi dici sempre che l’associazione fa troppo poco per me e per le altre famiglie, ma io ti rispondo con le parole di una parabola di Gesù, quella in cui una donna dona i pochi soldi che possiede ai poveri, mentre un ricco uomo ne dona molti di più, ma che sono ancora ben poca cosa rispetto alle ricchezze che ha. Gesù loda la donna, che pur avendo poco ha dato tutto. Così per me è tanto quello che la Onlus ha da offrirmi. Non lo misuro in quantità di soldi, ma nella qualità dei gesti rivolti a Matilde.

Quella promessa ha contribuito a dare senso a tutto il girovagare disperato che entrambe le nostre famiglie hanno affrontato, pur di cercare una speranza cui appigliarsi. Non è stato invano, se continuiamo a sentirci ancora oggi”.

 

Hai fatto altri pellegrinaggi nel corso del tempo?

“Con Claudio andammo anche a Lourdes, due volte. Furono esperienze bellissime e molto forti. Ma oggi la Madonna preferisco pregarla nella chiesa vicino a casa mia. Non è necessario fare un viaggio per cercare una speranza. Dio può sentirmi anche se resto qui”.