Mina alla guerra!

- Guido De Barros

La denuncia di Mina, mamma di Natale affetto da Leucodistrofia Metacromatica: “Come genitori di bambini gravissimi non abbiamo figure di sostegno qualificate che ci permettano di dedicare qualche ora al giorno al lavoro e alla socialità. Lo Stato ci vuole perennemente soli, confinati entro le mura domestiche, sfiniti dal dolore e dai ritmi di vita che un caregiver deve sostenere quando si ha a che fare con patologie neuro degenerative”.

 

 

Mina è una giovane donna che da 14 anni si prende cura di suo figlio Natale. Un bambino dallo sguardo dolce e gli occhi scuri. Un bambino che, purtroppo, dall’età di due anni è entrato a far parte della schiera dei malati rari, quelli gravissimi che nessuno vuole neanche vedere, perché la malattia e la morte -soprattutto di un bambino- fanno paura. La patologia di Natale si chiama Leucodistrofia Metacromatica, chi segue Voa Voa! Amici di Sofia aps sa bene di cosa stiamo parlando. La MLD è una patologia genetica rara, neuro degenerativa, completamente invalidante. Si manifesta, appunto, tra l’anno e mezzo e i due anni di vita, prima di allora il bambino è perfettamente normale. Parla, cammina, fa tutto quello che qualunque bambino della sua età deve fare. Poi, da un giorno all’altro, comincia a zoppicare, perdere l’equilibrio, dimenticare le parole. Nel giro di pochi mesi non è più capace di muovere un muscolo, di parlare, di masticare o deglutire, di vedere. I centri diagnostici che in Italia identificano la MLD solitamente paventano una durata della vita pari a circa tre anni dall’esordio della malattia. Natale invece sta per compierne 14. Mina, la sua mamma, non si stanca mai di accudirlo. I sogni che aveva per suo figlio non erano certamente quelli di vederlo disteso perennemente in un letto, con la peg nella pancia e la tracheostomia nella gola, ma nonostante il dolore lei non molla. Vive a Rimini con Natale e suo marito, ma i suoi sono lontani, nel Sud Italia, e Mina è sempre sola. Dopo tanti anni da caregiver, sente il desiderio di riprendere a lavorare per qualche ora al giorno, giusto per recuperare una dimensione di normalità che non ha più, da quando la malattia è subentrata occupando di prepotenza tutto lo spazio della sua quotidianità. Recentemente è tornata a lavorare come educatrice negli asili nido, ma per farlo sta facendo i salti mortali, perché il Paese in cui viviamo non prevede il reinserimento dei “genitori speciali” come lei, nel mondo del lavoro e nella società.

 

Mina, ci racconti qual è il problema?

“Dopo tanti anni mi sono accorta che oltre ad essere la mamma di Natale sentivo il bisogno di tornare ad essere anche una lavoratrice. Sono sempre stata un’educatrice di asilo nido, è questo il mio ambito professionale. Nel 2019 ho riniziato a fare qualche supplenza e dal 2020 sono collaboratrice scolastica, non di ruolo, ma faccio supplenze per 36 ore settimanali. Fino ad ora non ho mai ottenuto un part time di 18-24 ore, che sicuramente mi permetterebbe di continuare la mia professione, avendo però più tempo da dedicare a mio figlio. Lavorare per me è un piacere, è stata una svolta poter ritornare, e in una situazione diversa dalla mia, 6 ore al giorno si sosterrebbero tranquillamente. Ma nel mio caso bisogna considerare che la persona che mi sostituisce con Natale deve arrivare prima, per permettermi di occuparmi in tempo delle terapie di mio figlio e di fare la strada per arrivare a lavoro. Alla fine, le ore in cui ho bisogno di essere sostituita diventano 8”. 

 

Accudire un malato gravissimo e multi-sistemico non è come accudire un bambino normale…

“No di certo. Loro non mangiano da soli, devono essere cambiati perché indossano il pannolone, devono assumere più volte al giorno la loro terapia, devono essere aspirati spesso dalle secrezioni. Quando torno da lavoro mi aspettano la gestione completa del bambino e della casa. Ecco allora che realizzare il mio desiderio di tornare a lavorare è stato molto pesante. Il problema è che il nostro Paese non garantisce alle famiglie con disabili gravi come la mia alcun tipo di aiuto concreto, intendo dire personale qualificato che sia capace di prendersi cura di Natale in mia assenza. 

Se lo Stato ci aiutasse nel modo giusto per noi madri “speciali” sarebbe tutto più semplice”.

 

L’assegno di cura non lo prende?

“Certo, lo prendo, ma mi permette appena di remunerare una persona per le 6 -8 ore strettamente necessarie al lavoro, non di più. Invece le mamme di bambini complessi spesso di notte non dormono, devono svegliarsi di continuo per aspirare le secrezioni dei propri figli, per somministrare le terapie e per risolvere tutte le emergenze che possono presentarsi quando si ha a che fare con peg e tracheostomie. Nonostante questo la mattina vanno a lavorare, pur di sentirsi ancora, in qualche modo, inserite nel mondo.

E non si può pretendere che i datori di lavoro ti vengano in contro tutto l’anno. Sono dell’idea che mamme come noi non debbano assolutamente rinunciare al lavoro. Lo Stato deve capire che abbiamo bisogno di un’identità sociale, che il lavoro ci aiuta psicologicamente, perché per qualche ora possiamo non sentire il rumore dell’allarme del ventilatore nelle orecchie, possiamo metterci in relazione con altre persone e non parliamo solo di malattie. Esistono anche le cose normali, i discorsi normali come un’amica che ti racconta della comunione del figlio o delle vacanze. Mamme come me non possono andare in vacanza, perché spostare Natale sarebbe troppo rischioso. Ma parlarne almeno mi distrae, mi rasserena, perché -immersa come sono nel mio mondo fatto solo di medicine e macchinari salvavita- non penso mai che sulla terra possa esistere anche altro. Quando sono a lavoro, insieme alle mie colleghe, mi rendo conto invece che non ci sono solo le malattie e la morte”.

 

Se potessi rivolgerti alle Istituzioni, cosa chiederesti?

“La mia richiesta sarebbe l’assistenza domiciliare h24, studiata in modo tale da alleviare la famiglia della fatica. Un aiuto costante che renda le giornate più semplici, almeno fisicamente, perché nessuno può togliere ad una madre il dolore sconfinato della malattia di un figlio. Natale sta peggiorando molto negli ultimi temi e nessuno può togliermi dal cuore la disperazione che provo davanti alla malattia degenerativa di mio figlio, una malattia che lo consuma giorno dopo giorno senza che io possa fare niente. Però, almeno, avere qualcuno che ti aiuta e ti sostiene sarebbe importante. Deve essere così, se si vuole che le mamme e i papà colpiti da disgrazie come quella che è toccata alla mia famiglia trovino la spinta per andare avanti e continuino a vivere, nonostante tutto”.

 

Che tipo di assistenza servirebbe?

“L’assistenza deve essere qualificata nella gestione dei casi di emergenza; un bambino normodotato puoi lasciarlo nelle mani di persone di fiducia, ma un bambino disabile al cento per cento ha bisogno di persone super esperte. Inoltre dovrebbero essere sempre le stesse, perché cambiare continuamente il personale è assolutamente controproducente e rischioso, in quanto i nostri bimbi li puoi curare solo se conosci molto bene le loro abitudini: non possono parlare e non possono muoversi, se non conosci bene il loro modo di comunicare non li puoi aiutare. Ecco perché il personale deve fare pratica sul singolo paziente, non ci si può improvvisare”.

 

Attualmente stai usando l’assegno di cura per remunerare una persona che ti aiuta nelle 8 ore in cui vai a lavorare? 

Mamma Mina che si prende cura di Natale

“Sì. Da 6 anni ho una badante che però ha già più di 70 anni. Di lei sono molto soddisfatta. A Rimini non ho parenti, non ho altro che questa ancora di salvezza. Ma se si deve assentare, se si ammala ecc. io rimango scoperta. La verità è che, per lo Stato, noi caregiver siano limoni da spremere fino all’ultima goccia, da usare e poi buttare, perché alla fine con un misero assegno di cura se la cavano, mentre se fossero costretti ad internare i nostri figli in una struttura specializzata i costi triplicherebbero. Sono arrivata a sentirmi dire da uno dei medici che ha in cura Natale “Tuo figlio vivrà finché non ti stuferai di lui”. Ma come fa una mamma a stufarsi di suo figlio? I nostri bambini muoiono perché sono condannati da una patologia terminale, non perché noi genitori ci “stufiamo”, per quanto sfinente possa essere la nostra vita. I soldi pubblici vengono sprecati in molti modi, è una cosa questa che sta sotto gli occhi di tutti. Invece io credo che dovrebbero essere impiegati per far fronte ad emergenze serie come la nostra, per metterci nelle condizioni di essere ancora individui, non solo caregiver. Invece come esseri umani siamo condannati all’esilio nelle nostre stesse mura domestiche, all’isolamento sociale. Ti ritrovi sempre solo, tu, tuo marito e tuo figlio a combattere entro le quattro mura di casa, senza che il resto del mondo neanche lo sappia. E spesso le famiglie vanno in pezzi perché il peso da sostenere diventa insopportabile”.

 

Caterina Ceccuti