Il Sole, la Luna e la stella Rossana.

- Guido De Barros

La loro è forse la famiglia più poetica che abbia incontrato. Ligure lui, Valdostana lei. Capelli oro e occhi azzurro cielo lui, mediterranea nei colori e nel temperamento lei. Il giorno e la notte o, come amano definirsi tra di loro, il Sole e la Luna. E da un’unione simile non poteva che nascere una Stella, Rossana.

 

Ma partiamo dal principio, perché certe storie d’amore sono talmente magiche che meritano di essere raccontate con i giusti tempi. Barbara e Massimo si conoscono e si innamorano a dodici anni. Le regioni distanti, le vite troppo giovani e lontane li separano. Eppure il fato a più riprese, negli anni, gioca a farli rincontrare, e ogni volta il loro amore si risveglia. Inutile combattere: il loro destino, nonostante le difficoltà logistiche, è quello di stare insieme. Barbara abbandona la Val d’Aosta e diventa ligure di adozione, condividendo con Massimo la casa con la grande terrazza affacciata sul mare, che sembra davvero lo scenario di una fiaba a lieto fine. Insieme condividono anche un’altra cosa, il profondo amore per i bambini, che la piccola Rossana permetterà di esprimere alla massima potenza. Questo tenero germoglio che porta il nome della Stella più lucente nel firmamento, ha i colori chiari dell’alba sul mare, la tenerezza delle cose piccole, preziose, la bellezza di entrambi i suoi genitori. Ma c’è qualcos’altro, purtroppo, che ha ereditato da Barbara e Massimo, qualcosa di cui nessuno, men che mai loro due, poteva sospettare: la combinazione di due geni portatori di una patologia tanto rara quanto grave, che si chiama Leucodistrofia di Krabbe.

Quella di Rossana, la “nostra adorata Rossanina”, è stata una vita breve, che però grazie ai suoi genitori ha prodotto sulla terra una scia di amore e meraviglia, proprio come la coda di una magnifica cometa, e Voa Voa Amici di Sofia ha avuto il privilegio di assistere al suo passaggio, e di raccogliere in piccola parte quella polvere magica che tutt’oggi, a distanza di anni, continua ad illuminare il cammino di tutti noi.

 

Barbara, com’era Rossanina?

“Una bambina tranquilla. Mi ha sempre stupito il fatto che fin dalla nascita avesse già preso il corretto ritmo sonno-veglia. Anche dopo l’esordio della malattia, le brutte nottate si possono contare sulla punta delle dita. Altra cosa che ha sempre incuriosito me e il suo papà è il fatto che fosse molto attaccata al mangiare, le è sempre piaciuto tanto, mentre a noi genitori non importa nulla del cibo, tanto che a volte ci dimentichiamo persino dei pasti. Ma quel che Rossanina adorava di più era la musica. Sarà perché io ho sempre danzato in vita mia, non ho smesso neanche quando avevo il pancione, perciò la musica e il ballo hanno sempre fatto parte della nostra vita e hanno sempre rasserenato Rossana, fino all’ultimo”.

 

Com’è per te Rossana oggi?

“Ho grandi difficoltà ad immaginarla grande, anche se da quando è nata in Cielo sono passati diversi anni. Confesso che quando ci penso devo mettermi a contarli con le dita, e anche così restano solo un numero, perché per me Rossana sarà sempre una patatina piccolina, di appena 62 centimetri di lunghezza, visto che la malattia le aveva bloccato la crescita.

Comunque, grande o piccola che sia, io mia figlia la sento tutt’oggi, in tanti modi. L’ho sempre sentita. Spesso attraverso la musica, che come dicevo è sempre stato un nostro canale privilegiato, e lei lo adotta ancora. Quando io e Massimo la pensiamo con più intensità, ecco che in qualche modo arrivano le nostre canzoni, alla radio o altrove, benché ormai siano per la maggior parte passate di moda. Negli ultimi dieci giorni della sua vita, è stata Rossana a portare me e suo padre per mano, a farci capire come avremmo dovuto fare per affrontare quello che ci stava capitando, e quello che ci avrebbe aspettato dopo. Ma mentre nei primi tempi dalla scomparsa la sua presenza si avvertiva forte nei momenti in cui eravamo tristi, adesso è il contrario. Quando sono arrabbiata, nervosa e la chiamo, lei è sfuggente e non riesco a sentirla. Nei momenti in cui invece sono propositiva e serena lei arriva, come a dire Stai facendo la cosa giusta mamma, devi pensare a stare bene”.

Ricordo ancora quando Guido ricevette la prima telefonata di Massimo al telefono. Ero con lui in quel momento e lo vidi piano piano farsi serio mentre parlava con qualcuno di cui, ancora, non sapevamo niente. “C’è una nuova famiglia Cate -mi disse-, ha bisogno di aiuto”. A quel tempo il progetto “Voa Voa da noi” era appena cominciato. Avevamo ospitato a Firenze solamente una famiglia, quella del nostro adorato Munny di Roma. L’esperienza non era molta, ma potevamo contare su una squadra di specialisti volenterosi e molto competenti, che per tre giorni si sarebbero dedicati a Rossanina e ai suoi cari, con il solo scopo di migliorare la qualità della vita della famiglia, in un momento drammatico come sempre è il post diagnosi di una patologia neuro degenerativa infantile. I giorni a seguire furono per Guido e per i volontari molto concitati. Barbara e Massimo ci avevano chiesto di incontrarci e tutta la onlus ci teneva ad accontentarli il prima possibile. Avevamo capito che si sentivano abbandonati dalla struttura ospedaliera e dal territorio di competenza. Soprattutto, avevamo capito che avevano bisogno di incontrare un poco di umanità. Quando arrivarono nella struttura alberghiera che avevamo predisposto per loro, un luogo calmo e molto tranquillo sulle colline di Firenze, Guido andò ad accoglierli, mentre io rimasi a casa con la piccola Sofia. Ricordo come se fosse ora quello che mio marito mi disse una volta rientrato a casa: “Come è andata Guido? Com’è Rossana?”

“È piccola Cate. Davvero piccola. Ha solo sei mesi. Dio mio, saremo in grado di essere un poco utili a questi due genitori?” E nel dire questo la faccia gli si era fatta pallida e una preoccupazione seria traspariva dai suoi occhi.

Ancora non sapeva che, in realtà, sarebbero stati loro ad aiutare noi, quella volta e in futuro, con l’infinita dolcezza che gli è propria, ma anche con l’indubbia forza e determinazione con cui hanno sempre accudito Rossana e sostenuto l’associazione anche nelle difficoltà.

 

Barbara, ti va di raccontare il momento in cui avete incontrato Voa Voa?

“Vi abbiamo scoperto tramite il sito. A quel tempo io la notte cercavo, cercavo senza sosta. Tutti dicevano che cose simili a Voa Voa non esistevano. Vi abbiamo contattato e quando ci avete detto che potevamo venire abbiamo semplicemente pensato “Cavolo, questi ci vogliono davvero”, perché dacché Rossana si era ammalata, nessuna struttura socio sanitaria ci aveva accudito.

Arrivammo e ci trovammo dinanzi Guido. Sapevamo che non era un dottore, che era solo un padre, un genitore come me e come Massimo. Ma il modo di porsi e di parlare ci mise a nostro agio, subito pensammo che sapesse tante cose di questo mondo nuovo, il mondo delle malattie gravi infantili, pur restando un semplice padre. Con lui non dovevo sforzarmi di usare il linguaggio che usavo per relazionarmi con i medici. Potevamo rilassarci, finalmente, e penso di non aver mai dormito serena come in quelle tre notti di progetto a Firenze, con la sensazione di essere protetti da un papà che stava a braccia aperte per noi, e dai tanti amici che si dimostrarono essere i volontari della Onlus. Fino ad allora avevamo ricevuto solo botte in testa, tanto che quando Guido ha lasciato l’appartamento ci siamo tirati un pizzicotto. Poi è arrivata Caterina, una donna e una mamma come me, e se anche avessi avuto qualche timore, davanti al suo sorriso mi è passato. Quel quel primo sorriso me lo ricordo ancora. Guardavo i suoi occhi e ci vedevo dentro un misto di gioia per il fatto di poterci accogliere, e di tristezza per quello che ci stava succedendo. La prima carezza che mi ha fatto è stata quella delicata che si fa ad una bambola di porcellana. E solo per quell’accoglienza, dissi dentro di me, “ti affido mia figlia”, nel momento in cui mi ha chiesto di tenerla in braccio. Rossana non andava volentieri in braccio alle persone, era molto selettiva, perciò io mi ero adattata alla sua volontà. Invece in quel caso la sensazione è stata diversa”.

Anche io ho un ricordo preciso del mio primo incontro con Barbara e Massimo, questi fratelli che il destino ha avuto la bontà di assegnarci, pur non condividendo la stessa linea di sangue. Guido mi portò al loro alloggio di pomeriggio. Massimo aprì la porta: la tristezza, la dolcezza, la bontà negli occhi. Indicò Barbara che teneva in collo questo minuscolo fagottino biondo e mi disse “Da quando ci hanno detto che nostra figlia è malata, Barbara piange”. Gli sorrisi, anche se avrei voluto mettermi a piangere insieme a lei, perché sapevo bene quello che il loro cuore stava passando. “Che altro potrebbe fare una mamma?” gli risposi. Allora lui sembrò un poco tranquillizzarsi, come riprova del fatto che non c’era nulla di sbagliato in lui, nelle cose che fino ad allora aveva fatto per sostenere la sua Barbara in un momento simile, perché la sua reazione di mamma era del tutto naturale, anzi era l’unica possibile e, soprattutto, sarebbe stata comunque inevitabile. Massimo non era preoccupato soltanto per la bambina, ma anche per la sua compagna. Come spesso capita ai padri di famiglia quando si trovano dinanzi ad una situazione irrisolvibile per questioni di forza maggiore, anche lui si sentiva impotente. Nei suoi occhi leggevo i pensieri che anche Guido aveva avuto mille volte “Se soltanto avessi gli strumenti, combatterei fino allo stremo questo mostro che si mangia la mia famiglia”. Perché quando si ammala un figlio, si ammalano anche i genitori. Ma purtroppo gli strumenti per combattere il morbo di Krabbe non sono mai stati inventati.

Barbara stava in disparte con la sua bambina tra le braccia, leggermente curva, come se per proteggerla stesse facendosi carico di un enorme macigno sulle spalle. Mi si avvicinò piano piano, con tutta la dolcezza e la paura del mondo, per il fatto di condividere con me la sensazione truce di sentirsi disarmata, dinanzi a un mostro che ogni momento si portava via un pezzo delle nostre figlie. Ci riconoscemmo. Riconobbi nei suoi occhi le stesse emozioni che ogni giorno sentivo anche io. Provai a sorriderle, perché in quel momento Barbara non aveva bisogno di altra disperazione. Poi ci siamo abbracciate piano, teneramente Ti capisco, sono uguale a te. Ci sono e ci sarò, è stata la nostra tacita promessa reciproca.

 

Barbara, cosa vi ha portato via per sempre la malattia e, se lo ha fatto, cosa invece vi ha regalato?

“Più passano gli anni e più mi rendo conto di avere difficoltà ad usare parole assolute, ma in questo caso posso permettermi di dire che la malattia ci ha tolto per sempre la felicità. Nella vita potrò essere contenta, ma non felice, perché quello che ci è successo e la mancanza che ho di mia figlia me lo impediranno sempre. Un’altra cosa che ci ha tolto è la spensieratezza. Anche quando vengono a trovarsi gli amici più cari, anche nei momenti di festa, manca sempre un pezzo per sentirci pieni.

Ma posso dire che la malattia ci abbia anche regalato delle cose. Ha svegliato in noi emozioni  e risorse che non credevamo di avere, e ha portato alla luce la parte migliore di entrambi. Rossana, con la sua terribile malattia, ci ha donato un sentire che con un bimbo normale non avremmo saputo percepire. Dico questo perché, personalmente, sono una persona puntigliosa e sicuramente un bambino che scrive con i pennarelli sui muri mi avrebbe fatto arrabbiare. Dopo quello che ho vissuto con mia figlia invece, se avessi avuto un secondo figlio sono sicura che avrei preso un pennarello anche io e mi sarei messa a disegnare sui muri con lui. Penso che questo sia una specie di dono: il tempo con i bambini speciali è meno frenetico, più prezioso proprio perché breve, e ti porta a conoscere e vivere un’altra dimensione.

Altra cosa che ci è rimasta addosso dopo l’esperienza della malattia di Rossana è la sensazione che ad ammalarci siamo stati anche Massimo ed io. Ancora adesso che sono passati anni e abbiamo accettato l’idea di dover continuare a vivere in “maniera normale”, mi accorgo che la confusione che avevo in testa per colpa della malattia di Rossana, dei suoi ritmi particolari e dell’assenza di regole che scandiva le nostre giornate, continuo a portarmela dentro. Ho un equilibrio precario, magari per due o tre giorni mi sembra di avere tutto sotto controllo, poi invece mi perdo di nuovo. La mattina, per fare un esempio pratico, sento la testa nel pallone, ho difficoltà ad organizzare le cose e ad essere reattiva. Poi, durante la giornata, l’ansia scema. Insomma, è come se dovessi ogni volta spiegare a me stessa che i malati non siamo noi, che non lo siamo mai stati, e che dobbiamo ancora imparare a tenere la malattia al suo posto”.

“Insieme ai volontari della Onlus avevo sistemato nel frigo dell’appartamentino dove ospitavamo Barbara e Massimo del cibo per far fronte ai tre giorni di incontri previsti dal progetto -ricorda Guido-. Mi colpì il fatto che non mangiarono nulla, e che a fine progetto il frigo fosse rimasto pieno. Non avevano né tempo ne voglia di mangiare, l’unico interesse era rivolto alla bambina. Essere naufraghi senza avere in vista la terra ferma è terribile. Non avere strumenti per gestire la genitorialità extraospedaliera è terribile. Dare una spinta, anche piccola, a un genitore impaurito da simili, mostruose patologie, facendogli incontrare specialisti che hanno a cuore la gestione del bambino da parte dei genitori, può rivelarsi importante. E questo è sempre stato lo scopo di Voa Voa da noi. Nel caso di Barbara e Massimo, ricordo che sono stati molto importanti i momenti di incontro con la dottoressa Imma Florio e con la logopedista Daniela Clemente.”

Barbara rievoca le sensazioni dell’incontro con gli specialisti di Voa Voa:

“La particolarità di tutti gli specialisti che incontrammo rispetto a quelli con cui ci eravamo relazionati fino ad allora, è che si trattava di persone capaci prima di tutto di osservare, e di prendere in carico a 360 gradi l’intera famiglia, come passaggio indispensabile per potersi prendere cura in modo efficace di Rossana. Erano tutti professionisti esperti, ma anche persone di grande umanità. Per esempio, quando venivano nell’appartamento per visitare la bambina, se per caso lei dormiva non mi chiedevano mai di svegliarla, come invece avevano sempre fatto i medici con cui ci eravamo relazionati prima. Aspettavano lei, rispettavano i suoi tempi, perché solo così avrebbero potuto visitarla nelle condizioni giuste, senza farle prendere paura o farle partire le crisi epilettiche. Questo rappresentava un occhio di riguardo anche verso noi genitori, che ci siamo sentiti parte della cura. Gli specialisti ci facevano domande, ascoltavano con attenzione le risposte raccogliendo le nostre parole come dati importanti per imparare a capire la bambina. La visita non durava un attimo, e Rossana non veniva mai guardata da lontano. Erano visite accurate in cui ogni specialista tentava di stabilire un contatto con lei. E noi l’abbiamo affidata loro con serenità e fiducia, scoprendo un approccio alla cura mai provato prima e riscontrando risultati concreti. Ogni specialista, nel proprio ambito, aveva da trasmetterci qualcosa per migliorare la qualità della vita di nostra figlia. L’esperienza del Voa Voa da noi ha rotto il dogma imposto da una medicina che si ferma laddove non esiste una cura capace guarire. In quei giorni abbiamo imparato che, anche se la situazione di Rossana non era risolvibile, c’erano ancora moltissime cose che potevamo fare per lei come genitori.

Ricordo sempre le parole della dottoressa Imma Florio “Piangi Barbara, ne hai tutto il diritto. Ma solo cinque minuti, poi ti tiri su le maniche perché c’è tanto da fare”. La stessa dottoressa che capì, tra le righe delle mie mille domande, che avevo bisogno di sapere quanto sarebbe vissuta mia figlia “Non posso rispondere a questa domanda, perché nessuno lo sa. Hai capito da sola che il tempo è poco, ma per questo devi cambiare prospettiva e vivere il giorno di oggi. Non pensare all’ultimo istante, pensa all’adesso”. Era la prima volta che un medico mi diceva una cosa del genere. Imma mi mise in contatto con Anna Costa, un’altra pediatra super speciale che esercita sul territorio ligure e che poi ci ha seguito fino alla fine. Stessa magia l’abbiamo sperimentata con gli altri specialisti, Daniela Clemente, per esempio, che ci ha introdotti al prezioso mondo della logopedia, cui poi abbiamo dato seguito in Liguria grazie ad Anna Cattaneo (residente a Savona), che pur di visitare Rossanina si faceva ogni volta 120 km di treno all’andata e al ritorno.

Una volta scoperti specialisti così umani, tornati a casa non abbiamo più accettato niente di meno per Rossana, e tutta la squadra che l’ha seguita è stata composta esclusivamnete da persone speciali”.

 

Caterina Ceccuti e Barbara Gagliano